Il New York Times ci ha tenuto a rimarcare che Ennio Morricone non sapeva l’inglese, non prendeva l’aereo, non si è mai mosso da Roma e in America ci andò per la prima volta nel 2006, a settantotto anni. Ma a Roma Morricone stava benissimo. Aveva uno splendido attico sopra via dell’Ara Coeli, vista panoramica sul Campidoglio, praticamente un’inquadratura in campo lungo di un western di Sergio Leone, con la statua di Marco Aurelio a cavallo al posto del bounty killer che avanza solitario nella valle. A casa c’era anche un salotto privato con maxischermo, attrezzatissimo per guardare in solitudine le partite della Roma. Niente scenate in pubblico, gestacci, imprecazioni che avrebbero potuto tradire la sua immagine impeccabile, seria, taciturna, concentrata soltanto sui misteri della musica. “Una volta il produttore Dino De Laurentiis mi offrì una villa bellissima a Los Angeles”, raccontava spesso, “ma rifiutai. Non avrei mai potuto abbandonare Roma. E’ la città dove sono nato, dove sono cresciuto, a cui si legano moltissimi ricordi. Credo che non potrei vivere in nessun’altra città del mondo”.
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