Un'immagine di piazza San Pietro (foto LaPresse)

Quando ci scoprimmo soli

Maurizio Crippa

L’impatto emotivo delle strade e delle città deserte. Come se tutti “gli altri” fossero scomparsi. La nostra responsabilità di non disertare la vita. Rileggere “Dissipatio H. G.” di Guido Morselli

“Relitti fonico-visivi mi tengono compagnia, e sono ciò che di più diretto mi rimanga di ‘loro’”.

 

Fu la mattina di martedì 10 marzo 2020 che le persone scomparvero. Tutte. Ma già nel tardo pomeriggio del 9 marzo, il lunedì, verso l’ora che nel mondo di prima era sempre stata dell’aperitivo e dei selfie con aperitivo, cominciarono a comparire sui social, più lesti di tutti, un nuovo genere di fotografie. Le foto vuote. Disinfettate dalla presenza umana. I giornali e le televisioni fecero la scoperta solo un giorno e varie edizioni più tardi. Dopo tutti quei filmati di gente appiccicata che si accalcava ai treni per il mare o saccheggiava i supermercati come orde di scimuniti, e dopo le ondate d’ansia crescente per le prime apparizioni notturne del presidente del Consiglio in tv, venne l’epifania del grande vuoto. La sparizione degli esseri umani. Ce ne siamo accorti tutti. Accanto alla generale paura quotidiana, quella del virus, della malattia, ecco lo spavento di un senso di vuoto. Improvvisamente, una società fondata sull’affollamento della visibilità, ma anche sul solipsismo che crede di poter fare a meno delle altre persone, si è trovata di colpo senza “loro”. Aggrappata disperatamente alla certezza, tutto d’un tratto labile, delle presenze virtuali, di tutti quei tracciamenti “fonico visivi” che non ci abbandonano mai. Invece gli allarmi fotografici segnalavano impazziti: qui è tutto vuoto.

 

Improvvisamente, una società fondata sull’affollamento della visibilità, che crede di poter fare a meno di tutti, si è ritrovata senza “loro”

Non esiste soltanto la paura fisica: e se morissi, o accadesse a un mio caro? Non c’è soltanto il senso di colpa: lo abbiamo scatenato noi il virus, coi nostri comportamenti globali? O il rimorso: perché io sono scampato e altri no? Ce ne siamo accorti tutti, perfino sulle prime pagine dei giornali (Ezio Mauro: “E’ il vuoto della città, delle sue strade e delle sue piazze – lo spazio della civiltà europea”). Una paura e uno stupore d’altro genere. Che riguarda quel che siamo e che aspiriamo a essere. Un sentimento visuale, ha il potere di spostare di lato la nostra angoscia pratica, fatta di Amuchina e mascherina, e farcene aprire un’altra, più sottile. Guardando il vuoto, e avvertendo il suo corrispettivo: il silenzio che chiunque ha avvertito aprendo una finestra, o chi s’è arrischiato ad uscire nella strada. “Ciò che ‘fa’ il silenzio e il suo contrario, in ultima analisi è la presenza umana, gradita o sgradita; e la sua mancanza. Nulla le sostituisce, in questo loro effetto”. Perché “il silenzio da assenza umana, mi accorgevo, è un silenzio che non scorre, si accumula”.

 

L’epidemia che ci coinvolge e sconvolge è in corso, e nemmeno sappiamo dove sia la fine del tunnel. Ma nella nostra epoca iperprotettiva sappiamo già come imbrigliarne gli esiti futuri, gli effetti sugli scampati. Abbiamo le tecniche per gestire lo stress da evento post traumatico. Abbiamo le psicoterapie per ingabbiare il senso di smarrimento per essere restati soli. E il senso di colpa da sopravvissuti. Ma non basta, forse.

 

C’è un romanzo che li chiama “disertori”, coloro che se ne sono andati, spariti. E che imputa il protagonista, in prima persona, come il colpevole: “Eppure, l’Inspiegabile si è inaugurato per opera mia”. Perché tutto avvenne “la notte favolosa tra il 1° e il 2 giugno. Quella notte, era deciso, io mi sarei ammazzato. Perché. Per il prevalere del negativo sul positivo”. Ma poi non si era suicidato, e riemerso dalla caverna in cui avrebbe voluto inabissarsi aveva scoperto che “loro” se n’erano andati. Tutti. Spariti, scomparsi. L’Inspiegabile era accaduto. E lui si sentiva come il paziente zero della “dissipatio”. L’untore. E’ l’ultimo dei romanzi di Guido Morselli, Dissipatio H.G., dove H.G. sta per Humani Generis, che Adelphi pubblicò nel 1977, postumo perché l’autore, con maggiore determinazione del suo protagonista alter ego, morì suicida nel 1973.

 

La fantascienza di “Leftovers” che sembra riprendere Morselli. E il film di Frank Capra che invece né è il ribaltamento filosofico

La scomparsa del genere umano è un pensiero ripreso dal filosofo greco Giamblico, ma “dissipatio” nel romanzo vuol dire più che sparizione, è anche “evaporizzazione, nebulizzazione, o qualcosa di ugualmente fisico”. Oggi diremmo con meno lettere: lost. La trama del romanzo è breve, contano di più pensieri e parole. Un colto borghese che si è già separato dal mondo dei suoi simili in una valle svizzera, ipocondriaco o malato, certamente di solipsismo, decide di suicidarsi. In quello stesso istante, in quella notte, mentre rinuncia al suo atto, è invece tutto il resto dell’umanità a sparire. Andrà a vedere, come uno spettatore perplesso e sempre più angosciato, che cosa è successo, scendendo in città. Guardando e soppesando tutto ciò che è restato, di quel “loro” di cui il nuovo silenzio vuoto gli suggerisce che faceva pur parte. Aleggia il sentore degli incubi novecenteschi, la catastrofe nucleare, Hiroshima, un virus. Ma è un romanzo filosofico, in forma di resoconto, non fantascienza. Diremmo metafisico, non fosse che la metafisica è uscita da tempo dalle nostre categorie e l’aggettivo ormai viene usato solo per i quadri di De Chirico. Un romanzo di pensieri che cercano di tenere a bada gli spaventi, che costringe a pensare al nostro posto nel mondo. Con le domande pressanti o sarcastiche sul destino individuale e sugli affetti, e le domande relative invece al giudizio (universale) sulla società occidentale: se non stesse da tempo distruggendo se stessa; se non stesse sfidando troppo e malamente la natura. Domande che, appena modificate, rimbalzano anche nel dibattiti di questi tempi.

 

Morselli aveva ingaggiato per tutta la vita una lotta con Dio e la ragione e non aveva in simpatia la modernità. E ha gioco facile, in questo e in altri libri, a smontare il mondo vuoto di cui è spettatore nei suoi meccanismi dissolutori. Contrarian raffinato, trovava bersagli a schiovere, già cinquant’anni fa, nella “pacificata” ipocrisia occidentale: “Tacito omaggio alla bonomia borghese (imbottita d’egoismo, foderata d’ottimismo, trapunta di nazionalismo”), grazie alla quale le paludi sociali si cambiano in azzurri laghetti alpestri”. Perché il romanzo è ambientato in Svizzera. Crisopoli, la “città dell’oro” che fa da sfondo allucinato al suo pellegrinaggio alla ricerca, o alla constatazione, che gli umani sono stati “rapiti estratti fatti uscire”, ma non si sa da quale forza è Zurigo. Una “diserzione di massa”, la definisce il protagonista, con sottile ironia verso il popolo più militarizzato d’Europa. “Hanno disertato, non riesco a pensare a una costrizione innaturale”. Anche a vedere le nostre strade vuote, seppure non così romanzesche, viene a tutti la domanda che non avremmo mai pensato di farci. E allo stesso tempo un senso di colpa, o un appello nuovo alla responsabilità verso chi, semplicemente, in questo tempo non vediamo. O non conosciamo. Sentimenti che ogni cultura elabora a suo modo, e noi italiani non siamo specialisti.

 

Il romanzo filosofico su un mancato suicidio e la scomparsa misteriosa di tutti gli esseri umani. Morselli si uccise nel 1973

Di romanzi di fantascienza, o disaster movie, o serie tv da sopravvissuti ce ne sono molti, primo fra tutti Lost. Ma in fondo quelle sono normalità dell’apocalisse, lo spavento della situazione oltre il limite. Turbano solo la superficie. Qui invece a spaventare sono i pensieri. E il gioco di specchi del senso di colpa: dov’ero io quando tutto questo accadeva? “Guilty Remanant”, gli avanzi colpevoli, si chiama, curiosamente, anche una setta religiosa di sopravvissuti in un romanzo di Tom Perrotta, The Leftovers, in italiano Svaniti nel nulla, diventata anche una serie tv di successo. Anche qui, una parziale scomparsa inspiegabile e ultrafisica della popolazione mondiale. E il racconto di tutte le elaborazioni del lutto, perdizioni private e manie religiose innanzitutto, che vengono messe in campo dalle persone per rispondere a questo irrazionale vuoto. A questo dopo inspiegabile. Che Perrotta abbia letto Morselli è difficile pensarlo. Ma il titolo, Leftovers, non chi è rimasto ma le rimanenze, riecheggia lo stesso abisso dei “relitti” di Morselli. E il racconto rimanda all’identico tema della responsabilità e dello spavento per chi non vediamo più, che è il tarlo che ha iniziato a girare in testa anche a noi. E che ogni società declina diversamente. Se il romanzo americano evoca la fuga nel fondamentalismo, società come quelle asiatiche, le prime e più colpite dal virus, e abituate agli spaventi collettivi, hanno invece un culto quasi punitivo della responsabilità personale. Che invece da noi, paese anarchico e familista per eccellenza, stiamo solo iniziando a scoprire.

 

Colpa? Redenzione? C’è un film che è l’esatto contrario della Dissipatio di Morselli, e non soltanto perché è una allegra commedia hollywoodiana. E’ possibile che Morselli l’avesse visto (è del 1946), anche se non amava le commedie, né tantomeno americane. La vita è meravigliosa di Frank Capra è lo specchio filosofico rovesciato della stessa situazione. Nel film c’è un angelo – non imbronciato e malinconico come Bruno Ganz sopra Berlino, ma paffuto e allegro – che porta l’aspirante suicida Jim Stewart a vedere come sarebbe (brutta) la sua città se lui avesse deciso di suicidarsi. Nella commedia ottimistica e natalizia del Dopoguerra la diserzione è evitata, e la responsabilità risarcita è un premio che unisce il paradiso e l’american way of life. La vita è meravigliosa perché tu non sei scomparso. Il contrario della punizione di Morselli, in cui la diserzione dalla vita provoca la scomparsa non di sé, ma degli altri. Il vuoto e una (riscoperta) solitudine. Lo stesso che interroga noi, sottilmente. Quel silenzio umano appena percepito, che i giornalisti dei tg non sanno più come raccontare, una volta esaurito il repertorio di irreale, assordante, straniante. Persino su Instagram le foto vuote ci inquietano un po’.

 

“Io facevo il solito gioco, parentesizzare l’esistenza dei miei simili”. L’improvvisa scoperta di un’assenza sembra smentire il gioco

Il libro di Morselli scava anche di più, pieno com’è di disquisizioni e citazioni, come una disputa medievale intrisa di scetticismo. “Giro la cittadella strada dopo strada, rompendo il silenzio rigoroso, tra file di enormi Chevrolet borghesi allineate ai marciapiedi. Costeggio palazzine, depositi, officine”, descrive il protagonista. E intanto passa in rassegna tutto quel che non va, o non è andato, nel mondo così come lo ha conosciuto. Dal “dogma dell’incomunicabilità” agli “assiomi della informatica, del tipo: il mezzo è il messaggio, con l’indiscutibile corollario niente mezzo, niente messaggio”. Ma l’aspetto centrale, il più intenso, che Dissipatio H.G. sa elaborare è il nostro rapporto con “loro”. Il posto di ognuno nella vita. “Io facevo il solito gioco, parentesizzare l’esistenza dei miei simili, figurarmi l’unico pensante in una creazione tutta deserta… Allo stadio finale di una contemplazione abbastanza perversa, riuscivo a persuadermi per davvero di essere solo. Solo al mondo”.

 

Nei suoi gorghi filosofici, Morselli lo chiama “solipsismo”. Oggi noi, più digitali, parleremo di narcisismo. Parentesizzare l’esistenza dei nostri simili è stato o è il nostro modo di essere. Scoprire che – almeno per un po’, per qualche settimana, almeno nelle fotografie di là fuori – i nostri simili si sono parentesizzati davvero, è una buona pena di contrappasso. O forse l’occasione ladra che ci aspettava. “Un mondo tutto corpo, credente solo nella tangibilità, viene scorporato”, scrive Morselli.

 

In questi giorni, ovviamente, prevale la preoccupazione per ciò che sta accadendo, per come evolverà e per la costrizione collettiva a una solitudine sospesa tesa a fermare il virus. E però è palpabile che stia accadendo qualcosa d’altro nelle nostre menti, nella nostra immaginazione collettiva. Forse non meno essenziale. Che può essere la scoperta di un senso nuovo e inedito di responsabilità, o la necessità (ambigua) di un ordine e di un decisore. Ma è anche la percezione di una nuova socialità che ci manca, di un superamento del solipsismo. Oltre lo spavento improvviso del vuoto c’è la sorpresa, che le strade vuote possono essere un antidoto alla dissipazione.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"