Clusone (Bergamo), Danza macabra, particolare

L'interessante scoperta che la morte è il vero virus invisibile della nostra epoca

Maurizio Crippa

Abbiamo iniziato a esorcizzarla con la Peste nera, all’inizio della modernità. Per secoli abbiamo vissuto in un regime di progressiva sparizione. Non parlarne più. Ma scacciarla dal nostro orizzonte mentale non basta

“Da quando c’è il coronavirus, ogni volta che uno sconosciuto mi si siede vicino mi assale l’ansia”. Quante volte lo abbiamo sentito dire, o letto sui social, o pensato noi stessi? La diffidenza è diventata tutt’uno con la paura dell’infinitamente piccolo, dell’invisibile, dell’incontrollabile già tipica del mondo globale e digitale. E che cosa c’è di più infinitamente piccolo, invisibile, minaccioso di un virus? Nel nostro solipsismo, la mascherina in fondo è una forma di esorcismo: contro la scoperta di essere vulnerabili, di poter persino morire. Diceva Eliot che “la vita e la morte” sono “tutto ciò che gli uomini vorrebbero scordare”. Soprattutto la morte. Ma i giorni del virus l’hanno rimessa in circolo, seppure in forma lieve. La morte è il virus più invisibile della nostra epoca. Quando fu che la morte – prima figlia del fato e poi “sora nostra” – iniziò a essere eliminata dal nostro orizzonte? Lo spartiacque che ci ha reso moderni è curiosamente il più grande virus che abbia mai devastato l’Europa. La Peste nera di metà Trecento, che veniva anche lei dall’Asia. Fino a quell’epoca, dei quattro Novissimi che dominavano la visione ultraterrena del cristianesimo – Morte, Giudizio, Inferno, Paradiso – la morte era il soggetto meno rappresentato persino negli affreschi delle chiese. In fondo, non era che uno spartiacque naturale. Contavano solo il giudizio e la destinazione eterna.

 

Alberto Tenenti, origine italiana ma cultura profondamente francese, è stato uno dei più grandi storici del secolo scorso. Con altri studiosi delle Annales, si è occupato in profondità di quel passaggio d’epoca che fu la fine del Medioevo. In particolare, si occupò del sentimento della morte nel momento di una cruciale trasformazione. Resa visibile, tra le altre cose, dal nascere e proliferare di quelle nuove, strane, rappresentazioni. I “Trionfi della morte” e le “Danze macabre”, quei dipinti (di solito all’esterno delle chiese e sui muri dei cimiteri) in cui un’intera comunità, il re, il cavaliere, la dama, il monaco e anche il vescovo, assieme a mercanti e contadini vengono condotti in un surreale balletto da questo nuovo personaggio, la regina del tempo (che ormai non è più di Dio, è del mercante). Ma spesso in queste danze, al macabro e all’ammonimento si mescola un intento carnevalesco, grottesco. Una danza di viventi che provano a godersi appieno l’avventura terrena prima della Gran Mietitura. Soprattutto, nota Tenenti nei suoi libri (“Il senso della morte e l’amore della vita nel Rinascimento”, uscito nel 1957, è tra i suoi maggiori) gli uomini e i pittori incominciano a interessarsi ad altro. A cavallo del secolo della Peste nera e per tutto il Rinascimento “il senso della morte sarà caratterizzato da questa immagine della decadenza fisica”. Ma allo stesso tempo la morte, divenuta protagonista con la sua danza, inizia a essere messa da parte.

 

La scoperta di Tenenti è che quel clima di paura è anche l’inizio di un affrancamento dall’Aldilà religioso. La morte c’è, ma si può persino ridere come nelle baldorie della peste. La vita riguarda noi, non lei. “Trionfo della Morte e Danza macabra costituivano insomma delle rappresentazioni stimolanti e non deprimenti… un appello e un inno alla vita”. Chi vuol esser lieto, sia. Abbiamo iniziato a esorcizzare la morte con la Peste nera, all’inizio della modernità. Per secoli abbiamo vissuto in un regime di progressiva sparizione. Non parlarne più. Poi la Commare Secca rispunta. Un virus ineluttabile. La morte nelle nostre società è diventata invisibile (anche come imprevisto: meglio programmarsela, no?). Meglio non vedere funerali, meglio non vedere troppo anche i corpi malati. Meglio non parlarne. “L’annuncio è stato dato a esequie private avvenute” fa parte del nuovo bonton. Un tabù. Per questo si scatena il panico. L’impossibilità di cancellare dalla vita il virus più invisibile si riaffaccia, come un pensiero o una possibilità di pensiero.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"