Emanuele Severino era un filosofo che ci incuriosiva
Per tornare a Parmenide aveva assestato qualche serio colpo all’occidente
"La Follia sta andando verso il suo punto più alto. Per arrivarvi ha ancora molto cammino da fare, ma è in cammino”, disse qualche mese fa intervistato dal Foglio. Parlava, come sempre, della follia dell’occidente. Ma senza la disperazione radicale di altri pensatori che contro un certo tipo di follia occidentale hanno combattuto (basti dire Roger Scruton, per stare ai trapassati recenti). Loro combattevano contro la follia di recidere i fondamenti della nostra civiltà. Emanuele Severino combatteva contro i folli fondamenti stessi dell’occidente, a veder suo. Parlava della “follia” con un certo ironico garbo (molto garbata, la persona) e come di una cosa necessaria: “La Follia non è una povera cosa: è piena di intelligenza, di bellezza, di luce, e di potenza”. Il filosofo che volle tornare a Parmenide, che anzi pensava che dopo Parmenide l’occidente intero avesse sbagliato sciaguratamente strada, e che pensò di individuare uno di quei crocevia sbagliati proprio alla radice del cristianesimo, col suo Dio ordinatore posto ad intralcio dell’Essere, ci ha sempre incuriosito. E insospettito. Insospettito, nella battaglia delle idee, perché le sue, istintivamente, sembravano cozzare con le idee sulla storia, sull’etica naturale e la ragione occidentale, sulla tecnologia e il governo degli umani con cui il Foglio ha sempre provato a battere il suo ferro, finché era caldo e anche quando pareva freddo. Non tanto perché si sia mai stati, oltre una certa misura di buon senso, neotomisti o almeno aristotelici: nella misura in cui lo è stato l’occidente prima di cominciare a sospettare della sua stessa esistenza. Ma per una sorta di intuizione (la comprensione cartesiana, con Severino, è da sempre esclusa) che le sue idee – idee di raro filosofo, e non di storico o tecnico della filosofia – avessero a che fare ben oltre la sua volontà con il mondo per come andava, con la direzione che aveva preso.
Una direzione in cui, tra essere nulla e divenire, come già gli rimproverava Gustavo Bontadini quasi sessant’anni fa, tutte le vacche della verità finivano per essere bigie. Non che interessi più di tanto la disputa cattolico-teoretica. Ma tutto, nella storia anche accademica di Severino, era iniziato da lì. Laureato in Cattolica con una tesi su Heidegger e la metafisica appunto con il professor Bontadini, sottile e tetragono maestro del neo-aristotelismo, fu cacciato dall’insegnamento nell’Ateneo cattolico per incompatibilità tra il suo pensiero e quello cattolico. Dopo anni di tenzoni filosofiche come non ne avvenivano più dai tempi di Abelardo, tra Bontadini e lui. Cercato come merce rara e spesso negata dai giornali, fu famoso per certi amabili passaggi di carta vetrata filosofica: sulla politica e l’economia ingannevoli dei nostri anni, sul predominio ormai nullificante della tecnica. E, con un gusto particolare, sulle posizioni in materie terrene dei Papi, l’etica, i non negoziabili: non fu senza gusto che andò a collaborare, su chiamata di Massimo Cacciari, all’Università del San Raffaele di don Verzé, dove scienziati e bioeticisti cercavano una terza via alternativa alla dottrina cattolica. Quello che ha sempre attirato di Severino era la capacità – così inusuale per un filosofo puro – di incidere sulle idee generali. Il suo pensiero spesso oscuro è stato sovente ridotto all’idea che non ci fosse, in fondo, nulla di solido nel fondo: nel fondo che dovrebbe reggere i valori supremi, nel fondo che dovrebbe sorreggerci tutti. Un pensiero teoretico non banale, ma così corrosivo da essere ben accolto, in questa banalizzazione, da chi intuiva di pensarla, in fondo, come lui.
Antifascismo per definizione