Emanuele Severino

Emanuele Severino, la verità e la morte

Davide D'Alessandro

Anche con l’opera del filosofo bresciano, come con quella di Canetti, sarebbe possibile estrapolare tanti passi che contengono e affrontano la parola e il tema della morte, per farne un libro. Il titolo, ovviamente, non potrebbe essere “Lotta contro la morte”, perché Severino non lotta, ma contesta che qualcosa possa venire dal nulla e finire nel nulla. Siamo eterni

Emanuele Severino ha più volte disputato, lungo il discorso filosofico, su verità e morte. Dispute sulla verità e la morte, edito da Rizzoli, ha un incipit categorico: “L’uomo teme soprattutto la morte. È così da sempre”. Non v’è alcun dubbio. Ma il filosofo continua: “La paura viene da lontano, dall’inizio. Se la morte è l’estrema minaccia che il Dio veterotestamentario rivolge ad Adamo, qualora egli abbia a mangiare dall’albero della conoscenza, ciò significa che Dio sa che la morte è quel che Adamo teme di più. Ma una volta uscito dal paradiso terrestre è come se l’uomo si sia dimenticato della pena che gli è stata inflitta. Considera la morte come qualcosa di innaturale, accidentale – per esempio come l’effetto di un maleficio, di un’ostilità da parte di forze umane, demoniche, divine”.

Anche con l’opera di Severino, come con quella di Canetti, sarebbe possibile estrapolare tanti passi, che contengono e affrontano la parola e il tema della morte, per farne un libro. Il titolo, ovviamente, non potrebbe essere Lotta contro la morte, perché Severino non lotta, ma contesta che qualcosa possa venire dal nulla e finire nel nulla e domanda: “Ma ci si vorrà accontentare del discorso (il discorso della scienza, di cui oggi anche la Chiesa si fida, ossia in cui oggi ha fede) per il quale è ‘probabile’ che l’uomo esista, è ‘probabile’ che la sua vita incominci in un certo momento e in un cert’altro finisca? Si dice che ‘ognuno di noi’ sperimenta la morte del prossimo, non la propria. Ma poiché l’esistenza stessa del prossimo non è sperimentata, del prossimo non si può sperimentare nemmeno la morte (o la nascita). Si sperimenta il sopraggiungere di configurazioni via via diverse di ciò che chiamiamo ‘cadavere’ (e poi altre ancora, come gli scheletri e le ossa, che le feste ei riti arcaici mostrano di considerare ancora come ‘prossimo’). Configurazioni via via diverse e, certo, sempre più terribili. Che tuttavia non mostrano quanto è più terribile e angosciante: l’annientamento delle precedenti configurazioni del corpo altrui. Il cadavere mostra sì qualcosa di orrendamente diverso dalla vita da cui è preceduto, ma non mostra l’annientamento di questa vita”. Per cui, ragione e fede finiscono per cambiare le carte in tavola, per alterare “ciò che si manifesta, gettando sul suo volto la maschera della morte-che-annienta, l’autentico ‘pungiglione della morte’. La resurrezione dei corpi e della carne, annunciata dal cristianesimo, è certo un tratto della maschera: per risorgere, la carne deve essere diventata niente. La resurrezione è figlia legittima del pungiglione mortale. Eppure, sebbene profondamente sviante, quell’annuncio è una metafora del destino di ciò che, uscendo dalla manifestazione delle cose del mondo, non è diventato niente, ma eterno, e attende di ritornare nella sua gloria”.

Per quanto riguarda la verità o, meglio, la Verità, essa “è abissalmente altro dalla Verità della tradizione filosofica e dalla stessa distruzione di questa verità, compiuta in seguito dallo stesso pensiero filosofico”. Severino chiama “destino della verità” o “destino della necessità” ciò che è assolutamente Innegabile: “Nella sua essenza, ogni uomo è l’eterna manifestazione del destino della verità. […] Nel destino della verità appare che ogni essere è eterno. Il destino di ogni cosa, evento, istante è cioè di essere eterni. Nel destino appare quindi che il sopraggiungere delle cose della terra è il comparire e lo scomparire degli eterni. Il destino è il perché ultimo di tutto ciò che esso manifesta”.

Il destino della verità ha una dimensione non-nichilistica, ma non si ripresenta neppure come la verità assoluta della tradizione filosofica. La tradizione filosofica non riesce a stare, poiché si fa schiacciare tra il non essere ancora e il non essere più. Conclude Severino: “Ma il destino della verità è la negazione del nichilismo che concepisce come evidenza quella fede nel non essere ancora e non esser più, che rende impossibile ogni verità assoluta diversa dal contenuto di tale fede. La negazione del nichilismo consente pertanto al linguaggio di parlare dell’assoluto stare del destino della  verità. Il destino della verità rende possibile il linguaggio che lo testimonia”.

Questo è il libro, questa è l’opera di Severino. Farsi portavoce di quel linguaggio che lo testimonia. Non è, come qualche critico insiste a ribadire, la verità o il destino della verità di Severino. Sarebbe persino sciocco ritenerlo. Severino non è la verità, non può esserlo. Porta la voce, indica il destino della verità.