Emanuele Severino (foto LaPresse)

Severino, un filosofo europeo

Antonio Gurrado

Non è stato un antifilosofo. Sarà ricordato come l’ultimo pensatore dell’eredità greca

Un bambino di quattro anni, seduto sotto un tavolo mentre attende il ritorno del fratello maggiore. E’ il primo ricordo di cui Severino si diceva consapevole (Il mio ricordo degli eterni, Bur) e su cui incardinò la propria sfiducia ontologica nella memoria. Ricordare è errare, sosteneva, e la verità dei ricordi gli pareva insufficiente poiché “anche quando si scopre l’essenza più vera ci si trova nella condizione di non poter escludere che l’apparire dell’essenza sia un sogno”. La sua filosofia tentava di sormontare l’ostacolo posto dal tentativo di conoscere l’essenza delle cose o, secondo Platone, di ricordarla. Il platonismo gli appariva una potente forma di nichilismo contrapposta a un’altra forma di nichilismo, l’antiplatonismo: “Pensare che le cose vengano dal nulla e vi ritornino implica che si creda che gli esseri siano nulla”. Severino ha voluto saltare il nichilismo risalendo a un principio perpetuo, che affonda nel pensiero presocratico e nell’Essere di Parmenide. A ciò si correla il discorso sulla tecnica: come la filosofia occidentale ambisce a scoprire la verità definitiva dell’esistenza, la tecnica si fa scopo dell’occidente e spinta verso il suo tramonto, che si esercita attraverso il dominio di un’organizzazione sempre più efficiente della memoria umana, erronea.

 

Il fratello che da bimbo Severino aspettava era Giuseppe, maggiore di otto anni: normalista, doveva essere il filosofo di famiglia. Fu lui a introdurre il lessico filosofico in casa; crescendo, Severino studiò dai gesuiti e venne educato da un sacerdote tomista, don Zani, che ebbe il merito di ridurre le astrazioni della teologia a un’essenziale interrogazione del mondo. Universitario a Pavia, poté seguire l’esistenzialista Enzo Paci e il neotomista Gustavo Bontadini nonché interessarsi alla filosofia indiana con Luigi Suali. Lì iniziò a considerare la filosofia occidentale dall’esterno, per contrasto, tanto che nel 1948 intitolò il suo primo scritto La coscienza. Pensieri per un’antifilosofia

 

I manuali del futuro lo ricorderanno come antifilosofo? “Severino sarà ricordato come un filosofo europeo, all’altezza di Heidegger” – spiega al Foglio il direttore del Festivalfilosofia di Modena, Daniele Francesconi, di cui Severino è stato più volte ospite – “e come ultimo pensatore dell’eredità greca. Ma anche come maestro dei protagonisti dell’attuale dibattito italiano, incluso chi ha preso strade differenti: Galimberti ha tradotto l’ontologia in antropologia, Natoli lo ha seguito sulla strada della fuoriuscita dal lessico teologico, Cacciari ha affrontato l’enigma della mistica”. Forse istintivamente, il grande pubblico ha apprezzato la sua capacità di far tornare la filosofia alla domanda fondamentale (perché ciò che è è così?) e, nonostante il lessico ostico dei suoi saggi, di saper parlare in piazza alle masse. “Non era un filosofo oracolare”, aggiunge Francesconi, “ma, occupandosi di questioni essenziali, dava al pubblico che lo ascoltava un accesso diretto al pensiero, come se nell’argomentazione mimasse il suo svolgersi interiore”.

  

Il fratello Giuseppe non diventò filosofo perché cadde in guerra. Fu la prima perdita nella vita di Severino e forse contribuì a svilupparne la convinzione che tutto sia eterno, e che alla morte l’uomo “faccia esperienza di tutte le esperienze altrui e in ognuno appaia la Gioia infinita che ognuno è nel profondo”. Lo ribadì in vecchiaia, alla morte della moglie Ester Violetta: “Insieme a tutti i miei morti – e insieme a tutti i morti – mi aspetta. I nostri morti ci aspettano. Ora sono Dèi. Per ora stanno fermi nella luce. Come stelle fisse del cielo”.

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