Un'altra Fiume
Un viaggio nel nuovo modo di fare politica inventato da D’Annunzio. Cento anni dopo, tra mostre e polemiche, la sua impresa torna d’attualità
In questo articolo sono utilizzate 10 parole che il vocabolario Zingarelli 2020 definisce in via d’estinzione: retrivo, incandescente, abbacinante, congerie, utopia, inedia, alchimia, derelitto, filibustiere, eclettico. #paroledasalvare
Al viaggiatore che si metta in testa di ripercorrere a distanza di cento anni le tracce di Gabriele d’Annunzio e della sua ultima impresa, non mancano i luoghi e gli appuntamenti irrinunciabili. Anzi. A prima vista parrebbe un piacevole tour autunnale, si rivela invece una vorticosa marcia a tappe forzate, per via del sovraffollamento di commemorazioni. Non solo: potrebbe sembrare un viaggio retrivo e nostalgico, racconta al contrario più del nostro presente di quanto non si sospetti.
E’ passato un secolo, e Gabriele d’Annunzio riesce ancora a far parlare di sé. Questo è già un risultato. Essere sulla bocca di tutti è stata la sua principale aspirazione e attività da vivo. Restare sulla bocca di tutti anche da morto il suo massimo trionfo. 1 a 0 per d’Annunzio, dunque. Il poeta abruzzese seduce, incanta, divide, irrita, scandalizza, accende la polemica. Vanta ancora ammiratori e detrattori da curva allo stadio. Nel mirino della cronaca, il suo canto del cigno prima di ritirarsi in buon ordine nella casa del Vittoriale sul lago di Garda. Fiume, la sua ultima avventura, la più romantica, la più temeraria, la più controversa, la più strampalata. Di recente, alla lettura che vede l’occupazione come un mero atto militarista e nazionalista, se n’è sovrapposta un’altra che ne sottolinea i tratti moderni, sperimentali, rivoluzionari. Una festa permanente; un carnevale lungo 16 mesi, godereccio e iconoclasta, dove tutte le avanguardie si diedero appuntamento. Accorrono dadaisti, futuristi, letterati, artisti, filibustieri, giovani cosmopoliti a caccia di libertà. Oltre che personalità quali Guglielmo Marconi e Arturo Toscanini. Regole e buoncostume sono sospesi. Regna incontrastato lo sberleffo. Dilaga la pirateria. Nudisti ante litteram che ballano con donne del popolo. Ufficiali che vogliono abolire le gerarchie dell’esercito. Preti che vogliono abolire il celibato. Donne che votano. Donne che amano chi vogliono. Arditi che amano chi vogliono. Tutti che sniffano. Paura e delirio a Fiume, insomma. A mano a mano che la temperatura nella “Città di Vita” diventa incandescente, non si tratta più di annetterla all’Italia, ma di distruggere lo status quo, sovvertire la società, inventarne una nuova. E poi annettervi l’Italia. Del resto, non c’è da scandalizzarsi più di tanto, stiamo parlando di un governo, il primo e ultimo, a guida di un poeta.
Il poeta abruzzese seduce, incanta, divide, irrita, scandalizza. Vanta ancora ammiratori e detrattori
Il 12 settembre 1919, Gabriele d’Annunzio, autoproclamatosi Vate d’Italia, con un pugno di legionari del Regio Esercito parte da Ronchi, marcia verso Fiume e occupa la città istriana. A Versailles, le nazioni vincitrici del Primo conflitto mondiale stanno procedendo con noncurante avidità, medievale spirito di rivalsa e emblematica miopia (che porteranno dritto filato al Secondo conflitto mondiale, altroché patto Ribbentrop-Molotov!) allo smembramento dell’impero austro-ungarico. La città di Fiume, sbocco sull’Adriatico del versante ungherese dell’impero, autonoma dai tempi di Maria Teresa e per quattro-quinti italiana non è tra i territori irredenti che verranno annessi all’Italia. Il mezzo milione di militari morti in battaglia è bastato a riscattare il Trentino, il Sud Tirolo, Trieste e il Friuli Venezia Giulia, ma non Fiume. Con il solito, invidiabile, tocco magico quando si tratta di lingua, Gabriele riassume l’intricata questione in due parole, che hanno presa rapida sul cuore di molte Italiane e Italiani. Ed è subito “Vittoria mutilata”.
Mai come in questo tratto di storia, gli avvenimenti sono una catena: botta e risposta, provocazioni e ritorsioni, risentimenti e nostalgie, dove – è il caso di dirlo subito – le velleità, le passioni, l’irruenza, l’azzardo hanno il sopravvento sul calcolo politico. L’opinione pubblica, sapientemente manovrata, irrompe sulla scena. La famosa minoranza silenziosa che occupa l’intero orizzonte del dibattito. Mi viene in mente un solo precedente: l’entrata in guerra dell’Italia nel 1915. Gli animi s’infervorano, forzano la mano al Parlamento, la guerra è dichiarata. Guarda caso è stato ancora una volta lui ad appiccare la miccia. Numerosi invece gli epigoni. Bisogna riconoscerlo, D’Annunzio inaugura un modo di fare politica che non è ancora passato di moda: 1) Individua aspirazioni e paure degli elettori, 2) Mira alle loro viscere, 3) Spara frasi a effetto a ritmo di mitraglietta. E siamo 2 a 0 per Gabriele.
Qui la politica diventa emozione, passione, spettacolo. E’ un punto di non ritorno, ed è D’Annunzio a officiarne il battesimo
Eventi concatenati nella mappa della storia e in quella geografica del nostro percorso. Sono cento gli anni e sono cento i chilometri che dividono Redipuglia dalla città di Fiume, oggi Rijeka in Croazia. Fatti e luoghi si susseguono come i grani di un rosario. I capitoli del sussidiario di storia diventano pietre, palazzi, fotografie, documenti.
Il viaggio, non solo metaforicamente, comincia dal sacrario militare, innalzato dal regime fascista a Redipuglia per commemorare e dare degna sepoltura al numero indecente di soldati morti per conquistare questa striscia di terra. Tra il Monte Hermada e il Monte Nero si contano tre cadaveri a metro quadro. Dico tre cadaveri a metro quadro. Davanti a questo immenso esercito pietrificato, è drammaticamente evidente quanto il nervo toccato da D’Annunzio fosse scoperto. Redipuglia, un’immensa scalinata di pietra, dove il regime ha spiattellato senza remore la sua retorica militarista. Spazio enorme, prospettiva imponente, marmo di Aurisina riportato all’originale, abbacinante bagliore dall’impeccabile restauro ultimato giusto in tempo per la celebrazione dei vari centenari. Il fascismo, com’è noto, costruiva ad arte i suoi simulacri e se anche si è immuni dall’enfasi del regime o insensibili al richiamo della patria, questo cimitero un certo effetto lo fa. Non sento i soldati urlare “presente” come mi suggeriscono le didascalie scolpite a ogni gradino, a ogni tomba, ma certo qualche mormorio di ossa lo sento anch’io, e senza bisogno di tendere l’orecchio. Sangue chiama sangue. Questi morti non possono essere morti invano. Le potenze imperialiste non vogliono darci Fiume. Noi ce la prendiamo. Questo più o meno il ragionamento. E quindi via di corsa verso Ronchi.
Ronchi dei Legionari è poco più di un crocicchio. Un pacifico paesino della campagna friulana. Uno di quei luoghi anonimi che la storia, per quegli strani scherzi del destino noti come coincidenze, ama scegliere per sé. Qui la storia si è fermata non una, non due, ma ben quattro volte. Nel 1882 quando è arrestato Guglielmo Oberdan. Nel 1917 quando viene ricoverato Benito Mussolini ferito in guerra. Nel 1943 quando ebbe luogo la prima battaglia partigiana contro l’occupazione tedesca. Tuttavia Ronchi mantiene un profilo basso. Niente a parte il nome (che alcuni vorrebbero mutare in Ronchi dei Partigiani, forse non a torto) ricorda il punto di partenza della marcia verso Fiume. Solo un monumento accanto al cimitero e una targa sulla facciata della casa dove D’Annunzio sostò. A segnare il centenario, la piccola e curata mostra di Villa Vicentini Minuissi sui Giurati di Ronchi.
A essere rigorosi, Trieste non dovrebbe rientrare nel giro, ma la città di questi tempi sembra voler bene al Vate. E’ stata di recente svelata una statua del poeta, che ha sollevato molte polemiche. Trieste vanta numerose glorie letterarie. D’Annunzio, che non ha alcun legame con la città, non rientra tra queste. Sarà per non soffiare troppo sul fuoco, che la sistemazione in Piazza della Borsa appare un po’ dimessa? Curvo, meditabondo, proverbialmente calvo il poeta se ne sta seduto su una panchina. E non sembra altro che un vecchietto seduto su una panchina. Mancano solo le briciole di pane e i piccioni.
Punto focale delle commemorazioni e del nostro viaggio è la mostra “Disobbedisco, la rivoluzione di D’Annunzio a Fiume 1919-1920” allestita nel Salone degli Incanti, che si affaccia sul porto della città. Lo spazio è arioso, pieno della luce che filtra dalle grandi vetrate art déco. Il curatore, nonché presidente della Fondazione del Vittoriale, lo storico Giordano Bruno Guerri, tuttavia ha preferito ricreare l’atmosfera stigia e raccolta che caratterizza l’ultima dimora del poeta. Si entra pertanto in un bunker dalle eleganti pareti di velluto rosso, la cui scocca richiama la carlinga di un aereo. L’allestimento ne risulta raffinato, oltre che adatto al tema e al personaggio. Le didascalie sono precise, ricche d’informazioni, persino brillanti. Ma qui c’è il primo inciampo: i cimeli esposti. La solita congerie di medaglie, gagliardetti, pugnali, divise, bandiere insanguinate, che non riesce a scrollarsi di dosso la propria estetica della violenza e della nostalgia. Si piomba di colpo nel più logoro nazionalismo. In mezzo a tutti questi parafernali variopinti, rischia di naufragare la nuova lettura dell’impresa che proprio Guerri ha contribuito a diffondere. E siamo a 2 a 1. Del resto è forse impossibile trasmettere in una mostra lo spirito di festa orgiastica e ribelle che ha animato la città durante l’occupazione. Per immergersi nel baccanale fiumano, toccherà leggere i molti romanzi, racconti e memorie che l’avventura ha ispirato. Ad esempio, “Le mie stagioni” di Giovanni Comisso, massimo cantore dell’impresa. O “La quinta stagione o i centauri di Fiume” di Leon Kochnitzky, poeta cosmopolita e eclettico, direttore dell’Ufficio relazioni esteriori, anima della Lega di Fiume, una sorta di salon des refusés, una contro-Società delle Nazioni che voleva riunire i popoli oppressi, colonizzati o vessati dalle potenze imperialiste che banchettavano a Versailles. O “La Carta del Carnaro”, costituzione modernissima, che fu tra le prime a riconoscere “la sovranità di tutti i cittadini senza divario di sesso, di stirpe, di lingua, di classe, di religione.” O i numerosi saggi di pregio, ciascuno con un punto di vista originale sulla vicenda: “Alla festa della rivoluzione. Artisti e libertari con D’Annunzio a Fiume” di Claudia Salaris che ha inaugurato la nuova storiografia; “Disobbedisco. Cinquecento giorni di rivoluzione. Fiume 1919-1920” di Giordano Bruno Guerri; “Fiume, città di passione” di Raoul Pupo; “Fiume. L’avventura che cambiò l’Italia” di Pier Luigi Vercesi; “L’immaginifico. Vita di Gabriele d’Annunzio” di Maurizio Serra. Forse la letteratura arriva là dove l’arte e l’artigianato non arrivano.
E’ forse impossibile trasmettere in una mostra lo spirito di festa orgiastica e ribelle che ha animato la città durante l’occupazione
A voler essere puntigliosi, bisognerebbe passare anche per il Castello di Miramare, residenza degli Asburgo quando Trieste era porto dell’Impero. Ma non divaghiamo. A due passi dagli Incanti invece un altro luogo simbolo: il molo Audace. Qui alla fine della Grande Guerra attracca la prima nave della marina italiana, il cacciatorpediniere Audace. Trieste cessa di essere austriaca e diventa italiana. Il passaggio è ricordato da una rosa dei venti fusa nel bronzo nemico.
Fiume, o meglio Rijeka, finalmente. Si attraversano Slovenia e Croazia. Distese di boschi di conifere su lievi pendii. Tutt’intorno non ci sono segni di Antropocene, che torna a manifestarsi solo avvicinandosi alla città: s’infittiscono le cliniche dentistiche e i pensionati in vacanza. Si apre il golfo del Carnaro, ampio e calmo come un lago. In questo tratto di Adriatico limpidissimo, il colore del mare passa dal grigio al verde petrolio e brilla come cuoio tirato a lucido. Rijeka, che poi significa Fiume in Croato, è una sorta di Nizza asburgica, con grandi palazzi ottocenteschi dipinti di giallo. Edifici fascisti si specchiano in edifici comunisti. I cantieri navali, ancora molto attivi, sono intitolati al “3 Maggio”, giorno della liberazione, in questo caso dagli Italiani.
Nel Palazzo del Governatore, dove d’Annunzio insediò il suo quartier generale, è in corso una mostra sul tema, la terza: il punto di vista Croato. Una colonna della facciata è sbrecciata. Traccia dei cannoneggiamenti del “Natale di sangue” che pose fine all’occupazione. Un doppio scalone porta alla sala d’aspetto, dove è facile immaginare il bivacco dei legionari, i lazzi degli arditi, le occhiatacce tra nazionalisti e socialisti, le scaramucce tra militari e uscocchi, le calunnie di moderati e scalmanati, in un incessante via vai di donne, naturalmente. Tutti uniti nell’attesa di ricevere udienza dal Vate. Tutti uniti nella speranza di tirarlo per la giacchetta dalla loro parte. In questa stanza s’incontrarono e si scontrarono tutte le anime che illumineranno e sconvolgeranno il ’900: imperialismi, totalitarismi, militarismi, nazionalismi, ma anche utopie sociali di uguaglianza e libertà, diritti civili, rivoluzioni sessuali, contestazioni giovanili, avanguardie culturali, addirittura una precocissima coscienza ecologica e di tutela del paesaggio. Saranno anche problemi novecenteschi, ma ben lontani dall’essere risolti.
Nascono i discorsi dal balcone, che non sono proclami ma veri dialoghi con il pubblico; il connubio mistico con la folla
La mostra “L’Olocausta di D’Annunzio” è molto critica nei confronti dell’impresa. Ricorda le vessazioni inflitte alla popolazione croata; le disastrose condizioni economiche della città durante l’occupazione, che vide l’allontanamento dei bambini per non morire d’inedia e addirittura un caso di peste. Inevitabile il pareggio: 2 a 2. L’allestimento non risparmia neppure il narcisismo di D’Annunzio, pur riconoscendone il carisma. Forse è proprio questo il nodo della questione. Il lato più conturbante dell’intera vicenda. Qui nascono i discorsi dal balcone, che non sono proclami ma veri e propri dialoghi con il pubblico; il connubio mistico con la folla; l’alchimia della parola che trascina e infiamma; i simboli e la liturgia della politica di massa; addirittura i selfie a giudicare dalla quantità di fans – soprattutto donne – che arrivano da tutta Italia e non solo, per farsi fotografare col Vate o per chiedere autografi. I comizi al teatro La Fenice sono serate futuriste, happening più che tribune politiche. Le marce e le rassegne militari sono bagni di folla. Eredità da cui il fascismo ha attinto a piene mani. Fiume è un laboratorio politico: caotico, velleitario, contraddittorio quanto si vuole, ma qui la politica diventa emozione, passione, spettacolo. E’ un punto di non ritorno, ed è D’Annunzio a officiarne il battesimo. Orbo, ma a tutti gli effetti veggente. 3 a 2 quindi, ma per chi?
Il Natale di sangue lascia sul campo una cinquantina di morti. D’Annunzio e i suoi sgomberano nel Gennaio del 1921. Come sancito dal trattato di Rapallo, la città di Fiume diventa autonoma. I Fiumani, italiani e croati indistintamente, tirano un sospiro di sollievo, ma le loro traversie sono solo all’inizio.
Ultima tappa, il teatro La Fenice di Rijeka. Costruito nel 1914 dalla comunità italiana, quando contava 29.000 membri, era il più grande teatro futurista d’Europa con i suoi oltre duemila posti. Palcoscenico privilegiato dei comizi, delle feste, delle rivoluzioni della “Città di Vita”, ora è chiuso e derelitto. Le transenne aumentano, se possibile, l’aura sospesa, quasi metafisica. Fa riflettere che oggi l’intera comunità italiana residente a Fiume – 2.500 persone – troverebbe posto al suo interno.
Intervista a Gabriele Lavia