Carlo Vanzina ed Enrico Vanzina (Foto LaPresse)

"Mio fratello Carlo". Scrivere per sconfiggere la morte

Marina Valensise

Timido, schivo, ma irresistibile. Enrico Vanzina racconta il fratello scomparso un anno fa

Carlo Vanzina era un grandissimo timido. Sorrideva molto, ti guardava coi suoi grandi occhi dolci e spiritati, e se ne stava spesso in silenzio, osservando sornione con un’attenzione pudica, che poteva sembrare distratta, tutto quello che gli succedeva intorno. Poi però, bastava una battuta, uno sguardo fulminante, magari di soppiatto, per farti capire che aveva colto tutto, e soprattutto incamerato ogni dettaglio, pronto a rielaborarlo per ritirarlo fuori in qualche scena di uno dei suoi film. Un giorno, a Cortina, ci invitò con l’adorata moglie Lisa a colazione in un rifugio di montagna. Era inverno. Faceva molto freddo e c’era il sole, il sole di una di quelle giornate terse e senza fine, che sembrano ancora estate. Noi ragazze parlammo per ore, senza interruzione, sempre di stupidaggini, alterando i commenti allo stupore, in una presa in giro e auto-presa in giro permanente…. Carlo ascoltava e sorrideva, studiava il menu, si guardava intorno, versava il vino e puntava gli occhi attenti sui camerieri. A un certo punto nella sala comparve un quarantenne stempiato, circondato da due fusti palestrati. Si tolse il giaccone da escursionista artico in cui si era infagottato, e scoprimmo che era il pentito Ciancimino…. Carlo seguì la scena come se fosse un film, sorridendo con gli occhi alle goffaggini del trio, all’imbarazzo dei camerieri. Era come se stesse prendendo mentalmente appunti per un altro film. Non disse una parola, ma era chiaro che non si stava limitando a guardare, a registrare tutto con l’occhio di falco, ma dentro di sé, con la sua umanità, il suo candore, il suo umorismo sottile, stava riscrivendo la scena per tradurla in una manciata di battute destinate a diventare memorabili.

 

Carlo Vanzina era un tipo schivo, di pochissime parole. Ma quando parlava era irresistibile. E spesso parlava all’unisono col fratello Enrico, scrittore e sceneggiatore di tanti film di successo realizzati insieme. Quando li incontrai per la prima volta – avevano appena pubblicato un libro di memorie – rimasi colpita dalla perfetta sintonia che regnava tra loro. I fratelli Vanzina mi accolsero nel loro studio ai Parioli, un salotto borghese tappezzato di libri, circondato da un balcone a nastro che correva intorno all’appartamento in cui avevano vissuto da bambini col padre Steno, scrittore, regista e sceneggiatore, autore di alcune pietre miliari della commedia all’italiana e l’adorata madre Maria Teresa. Non si capiva che era il primo e chi il secondo, chi era il capo e chi il gregario. “L’uno è l’altro”, pensai mentre li ascoltavo. Tra loro l’intesa era assoluta, consolidata da un lungo sodalizio e da una singolare forma di fratellanza, del tutto esente dal gusto della sopraffazione, dalla rivalsa, dalla competizione. Che invidia… Carlo finiva le frasi di Enrico, e Enrico continuava il ragionamento di Carlo con assoluta comunione di intenti, in continuum di commenti ora graffianti, ora surreali, sempre spiritosi. Erano così sincronizzati che sembravano recitare un copione. E invece no. Sentirli rievocare gli anni di formazione domestica, i grandi del cinema del dopoguerra, sentirli ragionare sul becerume italiano e sui modelli dello stesso che formano il bestiario ameno e tragico dei loro film, e non solo riflettono la realtà, ma l’anticipa con predittiva energia, era come entrare dentro il romanzo della nazione.

 

Ora che Carlo è morto, un anno fa per un male incurabile, Enrico ha deciso di raccontare il suo dolore “per voce sola”, e ha scritto un libro struggente (“Mio fratello Carlo”, HarperCollins, 180 pp., 18 euro), pieno di rimorsi per non essere riuscito a salvare quel fratello adorato, per non essere riuscito a ottenere il miracolo di altri due anni di vita. Ricostruisce giorno per giorno il male del fratello, l’improvvisa diagnosi, le cure di eccellenza a Siena, il ricovero, l’angoscia sua e della famiglia. Alterna i suoi ricordi di bambino e racconta in prima persona dei rapporti con Lisa, con le figlie di Carlo, del viaggio a Londra per assistere in vece del fratello alla laurea della nipote, e poi il sorriso di Carlo alla vista del video sul telefonino… Enrico parla di sé per parlare di Carlo, com’è ovvio che sia per i Vanzina, visto che il fratello per lui non era solo una parte di sé, ma un altro sé, un sé più grande, più forte, più ottimista, e più sicuro, in cui confondere se stesso e dunque piangerlo in prima persona. Perché “ci vogliono due uomini per fare un fratello”, spiega Enrico citando in epigrafe Israel Zangwill. E perché “scrivere”, come apprese da bambino dal grande e malinconico Ennio Flaiano, “serve a sconfiggere la morte”. Personalmente non credo sia l’unico rimedio, ma di certo è un grande palliativo, che aiuta chi sopravvive ad affrontare un dolore altrimenti insopportabile, e regala a chi legge il ritratto impudico e senza veli di un uomo grande, colto nel momento estremo, quando fragilità e finitezza si trasformano nell’espressione più compiuta della sua stessa umanità.