Neonazi e amore per l'Europa. La pièce dello scozzese David Greig sembra scritta oggi

Cristina Marconi

“Europe” torna a teatro dopo venticinque anni e fa furore. E ci parla di Brexit proprio perché non ha cercato di parlarci di Brexit

Londra. Quando Horse, skinhead brutto e stupido, tutto soddisfatto per l’attentato appena compiuto, grida vittorioso: “Anche noi siamo l’Europa!”, tra un brivido e l’altro tocca dargli ragione. Sì, l’Europa sei anche tu, infausto e inevitabile, figlio dell’ottusità tua e degli altri, comunque araldo di un’autodistruzione che ha preso ben piede, eccome se ha preso piede, tanto che verrebbe quasi da pensare che l’Europa, a questo punto, siate soprattutto tu e i tuoi rozzi fratelli. Non c’è una virgola da cambiare a “Europe”, pièce teatrale scritta venticinque anni fa dal drammaturgo scozzese David Greig e tornata in scena con grande tempismo alla Donmar Warehouse di Londra, a due passi da quel Covent Garden che mantiene il suo ghigno gioviale e turistico anche davanti all’incendio al rallentatore della Brexit.

 

 

Nelle due ore di dramma, tutto inizia e finisce in una stazione dei treni, presidio istituzionale di una cittadina di frontiera in disarmo, gestita dallo zelante Fret anche quando i treni hanno smesso di fermarsi lì e non hai più “600 vite per le mani in una mattina d’autunno”. Ora di vite ce ne sono solo due, quelle di Sava e di Katia, padre e figlia in fuga da un paese che ha cambiato nome tante volte prima di essere direttamente cancellato dalla cartina geografica da una guerra feroce. Loro vogliono solo calma e dignità, il ligio capostazione cerca di cacciarli in difesa di un decoro che non ha ormai nessuna ragione d’essere, mentre la giovane assistente Adele guarda con ammirazione i viaggiatori: lei, romantica, non si rassegna al declino e i treni li va a guardare anche quando passano lontano, all’alba, portando i passeggeri verso mete sognate come Budapest, Vienna, Milano! Adele fa amicizia con Katia, la considera una cosmopolita e non l’anima disperata che è, le due si avvicinano, nasce qualcosa, Katia aveva un carattere duro “ma la guerra le ha permesso di esercitarsi”.

 

Anche tra Fret e Sava si crea un’amicizia, nei loro mondi sommersi e lontani avevano molte cose in comune, e da uomini d’altri tempi decidono di protestare con striscioni e slogan contro la chiusura di quella stazione che, in un modo o nell’altro, è casa per tutti e due. Loro credono nella politica, le ragazze nel viaggio, altri nella violenza. Nel paesino, un tempo noto “per le zuppe e per le lampadine”, c’è un solo bar, il Calypso, dove si ritrovano e si ubriacano gli ex operai della fabbrica appena chiusa, giovani arrabbiati e senza strumenti per leggere la realtà, come Berlin, il marito di Adele, che voleva solo lavorare e starsene tranquillo con sua moglie. Uno dei tre amici se ne va alla ricerca di qualcosa di meglio, Horse si radicalizza, Berlin da innocuo bonaccione diventa frustrato, cattivo, nocivo. Il loro compagno di scuola sveglio e intelligente, Morocco, un immigrato, si è arricchito con il contrabbando, per lui una frontiera è “una linea magica per i soldi”, vuole aiutare Katia ma naturalmente in cambio di qualcosa, lo picchiano, tutto precipita.

  

  

La politica ci mantiene buoni, o almeno questo dovrebbe fare, e invece certi luoghi diventano dannati non solo per la guerra, ma perché scivolano via dalle pagine della storia e rimane solo da andare via prima di farsi il sangue amaro. Come raccontava l’Economist qualche anno fa in un articolo sui disoccupati di Tilbury che guardavano gli stranieri in giacca e cravatta correre verso la stazione per andare al lavoro e si chiedevano dove fossero tutte quelle opportunità, preparandosi a votare Brexit perché nessuno glielo aveva detto, che in quel paese si poteva anche non morire di sonno. Ma non è l’Europa di Bruxelles, quella di cui si parla qui, non è quella palpitante delle istituzioni e della libera circolazione, ma quella della geografia e delle montagne oltre le quali ci sono altri vicini di casa, e pazienza se c’è una Manica d’acqua a separarci, siamo simili, così simili.

 

La pièce è del 1994 e Greig, drammaturgo allora appena venticinquenne, aveva già capito tutto dopo un viaggio in macchina in un continente in cui erano crollati sia il muro di Berlino sia il ponte di Mostar. Aveva visitato un villaggio in Romania invaso così tante volte che gli abitanti avevano costruito delle chiese a rotelle in modo da spostarle, all’occorrenza, nel bosco. Non è un radical chic col ditino puntato, Greig, con gli occhi ancora pieni dello spettacolo lacerante della deindustrializzazione della sua Scozia. “Non puoi avere una democrazia se non ti stai interrogando attivamente sulle prospettive delle altre persone”, ha spiegato in un’intervista recente e infatti la sua “Europe” è la storia di anime perse in un disastro annunciato. E ci parla di Brexit proprio perché non ha cercato di parlarci di Brexit.

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