Saul Steinberg

A vent'anni dalla morte. Nel segno di Steinberg

Sergio Garufi

Ironico e leggero, con un cuore nero. Da Milano a New York, il mondo come autoritratto

Che tipo, Saul Steinberg. Strano che di un personaggio come lui, con una vita e una carriera così singolari, non si sia parlato molto sui giornali in questi giorni, in occasione del ventennale della sua scomparsa. Eppure, nell’immaginario visivo di tanti, Steinberg occupa un posto non marginale, quello del poeta dell’inscape urbano, il cantore della cartografia interiore, intesa più come la coscienza del paesaggio che il paesaggio della coscienza, un po’ come la montagna Sainte-Victoire per Cezanne.

  

 

Anche per Riflessi e ombre, il libro di memorie scritto con l’amico Aldo Buzzi, che si sofferma con particolare attenzione sui ricordi giovanili, fra cui parecchi italiani, Steinberg invitava a sostituire la parola “autobiografia” con “autogeografia”, come se la vita fosse essenzialmente una questione di luoghi, di collocazioni e prospettive, come nella celebre copertina del New Yorker che mostrava il mondo visto dalla Ninth Avenue (foto sopra). Steinberg non offrì l’indicazione precisa dell’incrocio di Manhattan in cui aveva fissato il suo punto di vista, cioè con quale street s’intersecava la Nona avenue. Alcuni ipotizzarono che si potesse trattare dell’indirizzo di casa sua, come se quel disegno testimoniasse il suo amore per un angolo di mondo al quale finalmente sentiva di appartenere, dove lui, ebreo errante nato in Romania, passato dall’Italia e approdato negli States, aveva messo radici; al pari dell’incrocio di Brooklyn fotografato tutte le mattine da Harvey Keitel nel film Smoke scritto da Paul Auster, e che pare essere proprio l’indirizzo dell’abitazione di Auster, ma casa sua in realtà stava sull’Upper East Side, all’altezza della 75esima fra Park e Lexington.

 

Non si sa a cosa fosse legato quell’incrocio, ma la refrattarietà del pubblico a considerarlo un punto di osservazione casuale dice molto del suo modo di intendere lo spazio come una specie di atlante artistico e sentimentale, un po’ sulle tracce della poesia degli indirizzi che fu già di Peter Altenberg e del Finnegans wake. Anche dei luoghi milanesi in cui giunse dal natio borgo selvaggio in Romania per studiare al Politecnico, alla Facoltà di Architettura, ci ha lasciato molti disegni. Steinberg nel capoluogo lombardo abitò dal 1933 al 1940, e probabilmente se ne andò negli Stati Uniti solo a causa della promulgazione delle leggi razziali, per le quali prima fu anche rinchiuso in un campo di detenzione a Tortoreto, in Abruzzo.

 

A Milano alloggiò in una camera in affitto sopra il bar del Grillo in via Pascoli 59, vicino all’università. Anche di questo suo angolo di mondo ci ha lasciato dei disegni che ritraggono sia l’esterno, cioè la vista sulla strada, dal passeggio pacioso domenicale, che l’interno, la sua cameretta disordinata con la scrivania ingombra di matite e righelli e la vista sul “Cremlino”, il palazzo art decò chiamato così per le sue forme fantastiche con cupole e pinnacoli, che oggi è la sede della Facoltà di Ricerche chimiche e biomediche. Il disegno sembra fondere insieme la celeberrima cameretta di Van Gogh ad Arles e il suo dipinto con la vista sui tetti di Montmartre che eseguì guardando dalla finestra di rue Lepic dov’era ospite del fratello Theo. Ma a osservare le sue illustrazioni con attenzione si scoprono molti dettagli incongrui e perturbanti, per questo è lecito parlare di cartografia interiore, come se in realtà quelle mappe fossero metafore o simboli di qualcos’altro. Il tempo stesso nei suoi disegni ha una disposizione spaziale, di attraversamento, come una terra incognita da esplorare che riserva sorprese e agguati. 

 

Il tratto leggero, ironico e svagato della sua matita non deve trarre in inganno. Al fondo c’è un cuore nero che si manifesta con le figurette allucinante tra Hieronymus Bosch e George Grosz, e che probabilmente in parte ha reminiscenze personali, come nei disegni delle persone che si gettano dal tetto di palazzi, e che non possono non ricordare la triste fine di Sigrid Spaeth, la proto hippy tedesca con cui ebbe una tempestosa relazione fino al settembre 1996, quando lei si buttò dalla casa dove lui le aveva comprato un appartamento. Oggi, a distanza di vent’anni dalla sua scomparsa, viene da chiedersi che ne è stato di quell’uomo che in un famoso fotomontaggio teneva per mano un sé stesso bambino spaurito e confuso come se fossero due estranei, e che diceva di essere uno scrittore che disegnava invece di scrivere? Qual è l’eredità di quest’uomo consacrato dalla critica come uno dei graphic designer più importanti e influenti del XX secolo, che concepì il mondo come se fosse il proprio autoritratto, una mappa che serbava in ogni strada la sua impronta? Forse la vera natura di Steinberg la colse soltanto la moglie Hedda Sterne, anche lei di origine romena, la sola donna artista che comparve sulla copertina di Life nel ’51 assieme ai protagonisti dell’Espressionismo Astratto. Un bel giorno, dopo vent’anni d’infedeltà a volte anche sfacciate, Hedda gli disse: “Sai perché siamo rimasti amici così a lungo noi due?”. E di fronte al suo silenzio condiscendente si rispose da sola: “Perché siamo le due persone che ti amano di più al mondo”.

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