Da Conrad a Fitzgerald, un mare che è sempre apocalittico e rivelatore

Marco Archetti

Pirati, porti, tempeste in una raccolta Einaudi di racconti

“Ci sono tanti di quegli Smith, a questo mondo”, dice Adrian finalmente sul treno, Adrian di Park Avenue, il drammaturgo, Adrian che fino a poco prima era “una delle celebrità a bordo” – non una grande celebrità, diciamo pure una celebrità media, mediamente superflua, insomma, una celebrità tipicamente fitzgeraldiana, fatua per destino e cruciale suo malgrado. Lo dice mentre, a tempesta scampata, viaggia verso Parigi insieme ai figli e alla moglie Eva, vittima della sgradevole sensazione di essere ancora “su una nave che dondola”. Lo dice perché lei, su quella nave, aveva dondolato anche di più, lei scivolata sordamente nell’uragano, lei che a un certo punto aveva perso il controllo quando Adrian si era gettato tra le braccia della signorina Betsy D’Amido (“tutta nuova e immacolata, e aveva gli occhi selvaggi”) con quella disperazione che, in fondo, comprendeva benissimo senza poterselo confessare. Così, mentre lo champagne li allagava e la nave beccheggiava, i due soffrivano il peggior mal di mare e un’infinita trafila di altri mali oscenamente esposti allo sguardo di tutti quei passeggeri che “avevano un’aria sciocca” mentre Eva moriva e sentiva che erano perduti perché suo marito era perduto e, barcollando sul ponte buio, si strappava la collana di perle e la gettava nella bufera, conscia che “con essa se ne andava la parte più bella della sua vita”. Ma, per fortuna, prima o poi tutto finisce. E vomitato tutto quel che si deve vomitare, ecco che ogni tempesta passa, la nave attracca e si sale su quel treno che ci attende e ci porterà a Parigi. E quando il treno parte, la verità è una sola: tutto è alle spalle e nulla è accaduto, si è trattato semplicemente di un incubo.

 

Traversata tempestosa” di Francis Scott Fitzgerald è solo uno dei venti “Racconti di mare e di tempesta” (Einaudi, 310 pp., 16,50 euro) che, suddivisi in cinque sezioni (Vite di mare; Bucanieri, pirati e ribelli; Da un porto all’altro; Di tempeste e naufragi; Creature degli abissi), si possono leggere uno via l’altro come se appartenessero alla stessa lunga storia, non perché abbiano in comune ciò che raccontano, ma per il significato che li attraversa tutti dal primo all’ultimo. E cioè che il mare è sempre apocalittico, e apocalittico significa rivelatore, perché porta a galla soprattutto quando porta a fondo. Certo, “ci sono tanti di quegli Smith al mondo”, ci vien da dire per difenderci da quelle verità, ma invece no, invece ce n’è uno solo, e siamo tutti sempre lo stesso Smith che deve affrontare la nudità di se stesso anche se non ne ha voglia, anche se non ne ha le forze e la sproporzione lo ridicolizza. Racconti di mare e di tempesta, dunque, che non sono racconti di mare e di tempesta (non solo e non esclusivamente, in almeno un paio di casi per nulla: Pirandello, Dickens). Racconti di mare e di tempesta interiore che sono racconti di mare e di tempesta meteorologica (ma vale anche viceversa: Turgenev, Conrad). Racconti di porto come se fossero racconti d’alto mare, perché l’acqua ti illude con la pace ma porta sempre battaglia e tu sei già un altro senza nemmeno rendertene conto, il mare ti rovescia mentre si rovescia, la tempesta ti interroga mentre infuria, il vento fruga fin nei fondali e ti sbatte in faccia chi sei, consegnandoti un ritratto impietoso in punto di (possibile) morte.

 

Dal faro di Salgari al dramma di Balzac, dagli oceanici fili del telegrafo di Andersen alla scialuppa di Crane, da Melville che racconta la leggenda dell’isola di Barrington a Conan Doyle che canta una vendetta lunghissima, dai pirati di ostriche di Jack London all’incendio in alto mare di Turgenev, pagina dopo pagina le forze del mare interrogano quelle umane mettendole sotto vento, sotto torchio, sotto burrasca, e benedicono e maledicono destini con logiche spietate e imperscrutabili. La raccolta si apre con “Giovinezza”, forse uno dei più bei Conrad di sempre (“L’uomo è nato per i guai, per le navi che fanno acqua e per le navi che bruciano”), e si chiude con Franz Kafka che immagina il Dio Poseidone a sua volta soverchiato, non dalle onde, ma dalla forza dei numeri: scarafaggio subacqueo, impiegatucolo immerso nelle profondità oceaniche, amministratore delle acque alle prese con un ripetitivo sommare e sottrarre, è un Dio del mare che mai ha visto i mari. Un Dio naufragato per sempre. Un Dio che sogna di conoscere. Un Dio, come tutti, destinato a ignorare.