Storie per il ciclismo

Adriano Sofri

Riscoprire l’Italia che adorava Coppi, dio vincente e affascinato dalla sconfitta. Un libro

Pubblichiamo la prefazione di Adriano Sofri a “Alfabeto Fausto Coppi. Il campionissimo in cento storie”, di Giovanni Battistuzzi e Gino Cervi (Ediciclo Editore, 320 pp., 28 euro)

 


  

Noi veneriamo la longevità e continuiamo a sentire la soggezione per la morte precoce. Quando Fausto Coppi si iscrisse alla sua prima corsa, solo e senza ingaggio, Gino Bartali era il campione famoso e popolare, e Coppi stesso lo guardava come un idolo irraggiungibile, però lo raggiunse, già in quella prima corsa. Bartali è morto nel 2000, Coppi nel 1960: addirittura quarant’anni prima. Su loro due l’Italia si era divisa mentre erano vivi, ricompose alla meglio la divisione quando uno dei due non c’era più, e ora che tutti e due non ci sono più resta una cenere appena tiepida. Sono diventati incomparabili in tutti quegli anni in cui Bartali c’era ancora, e poteva riaggiustare e arrotondare la memoria, e Coppi era stato ingoiato dall’olimpo della gloria incresciosa, col suo massaggiatore cieco, il dolore di orfano precoce, la tragedia fraterna di Serse, la carcassa toracica da airone, il battito cardiaco anomalo, i tubolari scadenti, lo scandalo di un amore che l’Italia di allora – appena ieri – chiamava adulterio e puniva col ludibrio e la galera, e infine la morte imbarazzante e calunniata, per chissà quale colpevole malattia africana, piuttosto che per una banale cura mancata al chinino. Alla sua prima Africa, da caporale della Seconda guerra mondiale, Coppi era scampato: alla seconda, svogliata anche lei, per una battuta di caccia promossa da Géminiani, no. Io ero ragazzino e tenevo per Coppi, né ho cambiato da allora. Si faceva il tifo per i ciclisti perché si sognava la propria prima biciclettina a ruota fissa, e poi la prima da uomo, con la canna, e poi chissà, una Bianchi nera coi freni a bacchetta.

 

Oggi non si può più amare così il ciclismo, forse la Formula 1, dato che tutti sono automobilisti, ma la differenza salta agli occhi: mi congratulo del progresso, ma ho nostalgia dell’Italia arcaica dalla quale gli dèi non erano ancora fuggiti coprendosi il viso. Non ebbi niente contro Bartali, anzi: ma tutto quello che è successo ha reso più fatale e indiscutibile la differenza di Coppi, e dell’Italia minoritaria che con lui ebbe una folgorante ed effimera vittoria. La solita storia del Risorgimento, tanto di cappello ai passisti, ma la gloria è degli irregolari e dei solitari. A Torino, al motovelodromo, c’è un bel monumento a Coppi, e me ne rallegro. Mi dispiace, per esempio, che Bartali abbia una canzone così bella come quella di Paolo Conte, e Coppi no, non abbastanza. Se si può scrivere di Bartali “un naso triste come una salita”, che cosa si dovrebbe scrivere del naso di Coppi? Che Coppi sia stato il più forte, va da sé per qualunque persona ragionevole. Il bello è che era il più debole. Se Achille fosse stato, invece che selvaggio e brutale, schivo, timido, aggraziato e triste, sarebbe stato grande come Coppi. L’Italia si divise. Le due Italie.

 

La verità è che di Italie ce ne sono più di cento o duecento, e per questo fu così importante farne una, ed è così importante conservarla. Tutte queste veementi e becere lacerazioni bipolari, guelfi e ghibellini, bianchi e neri, sud e nord, Coppi e Bartali, e centrodestra e centrosinistra, sono tanto più faziose quanto più pretestuose e forzate, passioni da campanile fratricida, incapaci di stabilire davvero un normale misurarsi e alternarsi di maggioranza e minoranza. Grande era Bartali, monarchico o no, democristiano o no che fosse, e se davvero avesse contribuito a raffreddare gli animi sconvolti dall’attentato a Togliatti, incendiandoli con le vittorie al Tour, bisognerebbe solo esserne postumamente grati, come gli fu allora De Gasperi in pubblico, e in privato presumibilmente. Ma si poteva tenere per Magni e le sue discese, e per Nencini, e per Defilippis e anche per gli stranieri, benché allora fosse più malvisto e l’Europa ancora estera. Coppi fu un’altra cosa, piccolo paese ed Europa insieme. La folla per definizione era bartaliana, di quel toscano così esemplarmente capace di cattolicesimo e bestemmie addomesticate. Quella di Coppi era una folla solitaria. Vinceva ed era sedotta dalla sconfitta, da una sconfitta più alta, più profonda. “Un dio stordito dalla sua forza, piombato in un mondo che non ama”: così Anna Maria Ortese, al seguito di un Giro d’Italia. Naso a parte, avrei scommesso che Paolo Conte tenesse per Coppi. Avessi la musica, prenderei il reportage di Anna Maria Ortese e proverei a farne la canzone che manca a Coppi.

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