Giulia Occhini, nata a Napoli il 23 luglio del 1922, ebbe una relazione con Coppi negli anni Cinquanta da cui nacque Faustino (LaPresse)

Io, figlio dell'Airone

Fabiana Giacomotti

L’amore tra Fausto Coppi e la Dama bianca, la nascita di un erede illegittimo e lo scandalo italiano. Un manifesto poetico e politico

"Mia madre era una donna molto determinata. Arrivava dove voleva: quando volle ordinare una Ferrari, per esempio, telefonò a Gianni Agnelli". Si interrompe. “Non so se sia il caso di raccontarla, la storia della Ferrari”. E perché no, che cosa c’è di male a potersela permettere; un tempo soprattutto, prima che web e populisti aizzassero l’odio sociale, quantunque, ecco, nel suo caso, in effetti, uhm. Taccio. Faustino Coppi sorride, incerto; potendo fermare l’istante e osservare con un po’ di calma quest’espressione ritrosa, sarebbe facile confonderla con quella del padre di cui porta il nome per intero e per esteso, Angelo Fausto Coppi. La madre, Giulia Occhini, lo volle ostinatamente identico a quello dell’uomo con cui gli aveva dato la vita. La vicenda del riconoscimento del sessantenne dalle lunghe gambe arcuate e il naso importante che ho davanti è una delle tante pagine non bellissime che punteggiano la storia della morale a corrente alternata di questo paese. Sua madre fu coraggiosa, la coprirono di insulti; adesso la definiscono un role model, una paladina dei diritti civili delle donne. Lo fanno ora che la stampa mondiale si domanda se definire “girlfriend” o “lover” la trentenne per cui il neopremier britannico Boris Johnson ha lasciato la moglie sia abbastanza corretto e non offenda i sentimenti di nessuno. Adesso, la storia di Giulia Occhini e Fausto Coppi, “il Grande Airone”, darebbe ben poco scandalo: diciamo la copertina di un paio di riviste di gossip e il veleno di un pugno di hater sul web, quasi tutto per lei naturalmente, e quasi certamente di sesso femminile, come fu all’epoca, perché non c’è come una donna per insultarne un’altra. Comunque, nessuno andrebbe in galera per abbandono del tetto coniugale (che, a ben guardare, avevano lasciato alla chetichella in due, ma in prigione andò solo lei, per via della denuncia del marito che non aveva voluto concederle la separazione e soprattutto perché non vinceva il Tour de France). Quel mese di carcere ad Alessandria affrontati a testa alta e il periodo di domicilio coatto ad Ancona, con Faustino molto piccolo affidato ai nonni, contribuirono ad accrescerne la fama e segnarono un punto di non ritorno nell’evoluzione del diritto di famiglia. Nel 1963 il matrimonio non era più causa di licenziamento (almeno sulla carta); si iniziava a rivedere la normativa sulla patria potestà (Giulia avrebbe lottato molto per poter rivedere i figli del primo matrimonio) e fra il 1969 e il 1974 la legge sul divorzio avrebbe completato il proprio iter. La Dama bianca avrebbe potuto intestarsi qualche battaglia pubblica, scendere in piazza con la seconda ondata femminista: non lo fece mai e la sua vita, da quel fatale incontro del 1953, alla tappa dello Stelvio, fino al 1993, anno della sua morte per i postumi di un incidente automobilistico avvenuto di fronte a Villa Coppi, è trascorsa nella più totale riservatezza, che non significa nell’ignavia o nel rimpianto, come verrò a scoprire in questa oretta di chiacchiere e come nessuno ha scritto mai, quasi che la fossa in cui venne calato Fausto Coppi nel 1960 avesse dovuto inghiottire anche lei.

 

 

Sua madre fu coraggiosa, la coprirono di insulti; adesso la definiscono un role model, una paladina dei diritti civili delle donne

La storia dell’amore fra Fausto Coppi e Giulia Occhini rappresenta “un manifesto poetico a uso delle giovani generazioni e dei loro valori”, come scrive il figlio nell’unico libro che si è permesso di scrivere, un paio di anni fa, con la collaborazione di un giornalista specializzato in ciclismo e che purtroppo ha permeato ogni singola pagina di un tono patetico per nulla assimilabile allo spirito pudico e discreto dell’uomo con cui sto parlando. Pare che il libro sia andato molto bene, in special modo in Francia, dove il mito del “campionissimo” è ancora molto partecipato, dunque bene per tutti. Epperò, quante invocazioni “a papà”, quanti richiami a quell’infanzia di cose non detta, di volti immoti, di sguardi inquisitivi. Angelo Fausto Coppi, per tutti dalla nascita Faustino, ha 64 anni e si porta addosso, quasi fisicamente, il peso di una vita passata all’ombra del padre, il leggendario corridore di cui quest’anno ricorrono i cent’anni dalla nascita, e nell’aura del mistero che tuttora circonda sua madre, Giulia Occhini. La Dama bianca, come è chiamata tuttora e come se quell’aggettivo le appartenesse, fosse un attributo della sua persona. Bianca come cosa? Come una pagina bianca? Come l’invisibilità a cui avevano cercato di riportarla un po’ tutti, perfino la sua famiglia, dopo lo scandalo? Le parole hanno un valore specifico, “significano” cioè hanno e lasciano un segno, e il giornalista dell’Equipe che glielo aveva dato, Pierre Chany, aveva solo indicato, certo con un po’ di malizia, il colore del montgomery che indossava “quella signora in bianco che abbiamo visto vicino a Coppi”, non conoscendone il nome. Scrisse “la dame en blanc”, come quel famoso racconto di Wilkie Collins. Tra vestire di bianco ed essere bianchi corre una certa differenza; la si definisce disprezzo.

 

“Sa che per un certo periodo fece la stilista? Aprì un maglificio, si chiamava Campionissimo: i modelli erano ispirati un po’ a Missoni, che peraltro erano molto amici di papà, Ottavio in particolare. Andavamo spesso da loro, a Sumirago. Un anno sfilò anche a Pitti, ma durò poco: mamma non era abile negli affari, e pochi erano disposti ad aiutarla”, racconta, cercando di suscitare il mio entusiasmo: chissà perché si ritiene che chi si occupa di moda abbia interessi monotematici, e Angelo Fausto Coppi appartiene a quella generazione a cui si insegnava che bisogna mettere l’interlocutore a suo agio. Dunque, parliamo di moda.

 

Quella breve indicazione sul testamento che permise alla madre di ottenere la legittimazione per il figlio dopo ventitré anni di battaglie

Dando fondo alla memoria e poi frugando bene in quella miniera dalle mille gallerie che è il web, ritrovo un articolo di Irene Brin per il Corriere d’Informazione che, dall’alto della sua perfidia e della miopia che usava come un’arma, tenta di inchiodare la vedova Coppi all’irrilevanza sociale e alla pochezza intellettuale: “Il maglificio Campionissimo annuncia che esporrà i suoi modelli a Firenze, al Gran Hotel…”. Purtroppo l’attività internazionale della signora Giulia Occhini comincia con uno sbaglio e non di stampa, ma di francese, perché “gran”, senza “d” è ripetuto due volte nel cartoncino di invito. La Dama bianca ha imparato, forse, a dirigere le sue maglieriste, ma certo non i suoi tipografi. Diritta, dietro a un bancone coperto di maglie e magliette e vestitini e vestitoni, Giulia Occhini è apparsa magrissima e patetica. Un giornale fiorentino l’ha anche descritta “rifinita” e non si sa bene se l’aggettivo fosse usato per indicare sfinimento o raffinatezza. I toscani sono talmente cruschevoli e misteriosi!. L’articolo ha la data del 9 gennaio 1961: Fausto Coppi era morto da un anno esatto. Dunque, era più che giustificabile che la donna a cui perfino il Papa Pio XII aveva dedicato una reprimenda pubblica e che si era sposata in Messico non avendolo potuto fare in Italia, fosse sciupata per una vedovanza così repentina e per una morte così facilmente evitabile (“della notte in cui mio padre si aggravò ricordava sempre di aver firmato un monte di assegni a luminari che avvaloravano l’uno la diagnosi sbagliata dell’altro”).

 

Oggi il figlio ha 64 anni e si porta addosso, quasi fisicamente, il peso di una vita passata all’ombra del padre, il leggendario corridore

Fosse stato pubblicato oggi, questo articolo squallido, a essere inchiodata sarebbe stata lei, Irene Brin; crocifissa alla sua inutile crudeltà alto-borghese: le maglie a quadri con le frange che accompagnano l’articolo, disegnate dalla divina Brunetta, sembrano fra l’altro molto carine. Ma non avrebbe potuto farcela, Giulia Occhini, con tutta la stampa e tutta l’Italia contro, e infatti non ce la fece. Il maglificio Campionissimo venne posto in liquidazione dopo due anni di attività. A proseguire i rapporti della famiglia con la moda, racconta Faustino Coppi, avrebbe provveduto Loretta detta Lolli, figlia del primo matrimonio di Giulia che, arrivata a sedici anni, potendo finalmente scegliere con quale genitore vivere, a differenza del fratello decise per la mamma e per la villa di Novi Ligure. “Era modella di Emilio Schuberth, poi entrò a far parte dell’atelier di Mila Schon”. Morì di leucemia a trentacinque anni, nel 1981, quando la moda a Milano entrava nella sua fase di massimo splendore: per la madre fu il colpo definitivo. “Si spense a poco a poco”. Non ci fu più moda “che le piaceva tanto”, più cene dai Missoni, più Agnelli, più niente, nonostante la presenza affettuosa del nuovo compagno, l’industriale Stefano Azzaretti, che è anche il motivo per cui questo colloquio non si svolge a Villa Coppi (“mi scusi se non l’ho invitata in villa, ma mia moglie e i miei figli sono in vacanza, a Spotorno, e c’è un disordine tremendo”) ma nella saletta “special guest” dell’outlet McArthurGlen di Serravalle, fra russi sovrappeso e sovraccarichi, qualche famigliola islamica in sneaker, nessun altro italiano. Fuori ci sono trentacinque gradi minimo e il parcheggio ribolle delle automobili di chi è arrivato a caccia di saldi. Dentro ce ne saranno diciotto. Chiediamo alla direttrice di alzare un po’ la temperatura. Faustino Coppi non si è mai occupato di ciclismo, presenzia con gioia e con qualche fatica alle commemorazioni dedicate al padre. Si occupa di edilizia: cantieri, costruzioni. Il lavoro, sorride ancora, “me lo sono trovato in casa”: il patrigno, che possedeva un’impresa di scavi, condivideva infatti interessi economici con Tarcisio Persegona, l’industriale parmense che, anni fa, aveva venduto alla public company inglese del retail i terreni su cui è stato costruito l’outlet di Serravalle. Persegona condivideva con tutti loro la passione per il ciclismo, di cui, in un certo senso, è morto. La notizia apparve lo scorso novembre su tutte le testate sportive, Gazzetta compresa: il “mitico Tarcisio” era infatti uno dei grandi sponsor delle due ruote con la sua azienda, la Tre Colli, “leader nella costruzione di oleodotti e gasdotti”. E’ stato colpito da un aneurisma mentre pedalava, a ottant’anni. Aveva cominciato a tredici, povero in canna, e aveva da poco festeggiato la salita numero cinquecento. Storie che sembrano una favola anche solo a scriverne. Dunque, Tarcisio Persegona con quel nome da personaggio di Guareschi aveva messo sotto contratto il figlio di Fausto Coppi, con gli occhi grigio-azzurri grandi e tristi come il padre, mentre era ancora studente di ingegneria e non l’ha più lasciato andare. Quando sarà passata un’ora dal nostro primo caffè, Faustino Coppi inizierà a guardare l’orologio, perché per la Tre Colli lavora ancora e c’è un cantiere che aspetta, prima della pausa estiva. Si fa solo un salto a casa per prendere una copia di quella biografia, in francese perché l’editore italiano l’ha esaurita. “I miei genitori amavano la Francia almeno quanto la Francia amava loro”, dice, e indica il ristorante di Parigi dove andavano sempre a rifugiarsi, il san Francisco, uno di questi posti che ormai sono del tutto usciti dalle mappe del turismo ma dove, pare, le foto del “campionissimo” ci sono ancora. Faustino Coppi vive ancora nella casa dov’era arrivato subito dopo la nascita, in Argentina, dove la madre era stata accompagnata dalla fidatissima Pinella De Grandi, moglie del meccanico della Bianchi. Non potrebbe mai lasciarla: fa parte dell’eredità del padre, quella breve indicazione sul testamento – “Lascio a mio figlio Angelo Fausto…” – che permise alla madre di ottenere la legittimazione per il figlio dopo ventitré anni di battaglie, nel 1978. In casa non è stato toccato nulla, ancorché “mia madre prima e mia moglie poi abbiano cambiato ogni tanto la disposizione dei mobili”: nel salone a destra dell’ingresso di questa villa primi Novecento, come ce ne sono tante in Piemonte, con la loro facciata affettuosa e il cancello importante, padronale, sono ancora esposti tutti i trofei e le medaglie: i gran premi, le coppe del Giro d’Italia e del Gran Tour, le foto. Sul divano, una maglia. I figli di Faustino, Giulia che studia Scienze della formazione e Andrea, che sta completando il liceo, vivono il cognome Coppi con assoluta nonchalance. “I miei genitori volevano trasferirsi a Milano, avevano già cercato casa”. Trasferirsi adesso? Non se ne parla nemmeno.

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