La quotidianità concreta dimenticata negli anni di Tangentopoli

Antonio Gurrado

“Una volta ladro, sempre ladro”, il romanzo di Lorenzo Moretto, ci ricorda come nei tristi anni di Mani Pulite abbiamo omesso in massa la realtà

Ora che è trascorso un quarto di secolo possiamo ammettere che nei tristi anni di Tangentopoli abbiamo omesso in massa la realtà: abbiamo dimenticato che, nelle pieghe delle notizie giudiziarie, resisteva una quotidianità concreta che si collocava di là dal parere politico o morale che l’opinione pubblica si andava costruendo. La letteratura aiuta a rendersene conto più della storia o della cronaca e il romanzo d’esordio di Lorenzo Moretto (“Una volta ladro, sempre ladro”, minimum fax) trae credibilità e statura da dettagli simili. Bisognerebbe moltiplicare per quattromilacinquecentoventicinque, tanti quanti gli arresti di Mani Pulite, il close-up sulle dita macchiate di nicotina che gli agenti infilano “in mezzo alle mutande di tutta una famiglia, infettandole in qualche modo con le molecole che si erano depositate sulla loro pelle nelle centinaia e centinaia di perquisizioni passate”, o sugli imbarazzati “Buonasera” e addirittura “Grazie” con cui, dopo un’intera giornata di perquisizione, salutano la famiglia mentre traggono il padre in arresto, oppure sul caffè che costui offre loro all’autogrill mentre sfrecciano nottetempo dal Friuli a San Vittore. Non sono coloriture per favorire il realismo né esche per la pietà del lettore ma le dure pietre d’inciampo per il nostro giudicare in astratto.

  

Gli italiani, racconta Moretto, sono avvezzi a “schierarsi ogni volta nelle tante opposte coalizioni che li definivano agli occhi degli altri: pro o contro i giudici, pro o contro la carcerazione preventiva, pro o contro la politica, pro o contro Milano, pro o contro i mondiali, pro o contro Arrigo Sacchi”. La ripartizione per massimi sistemi divora tutto tralasciando quelle tracce di umanità – le arance che davvero i visitatori portano ai carcerati, la Settimana Enigmistica per passare il tempo senza rileggere ossessivamente l’ordinanza del gip, il piatto di pasta al tonno e i Vangeli in allegato all’Unità offerti ai nuovi compagni di cella per lenirne l’angoscia – che sono altrettante tracce di ragionevolezza e si estendono su romanzo senza distinguere buoni o cattivi, colpevoli o innocenti. La realtà non è draconiana come gli schieramenti d’opinione. Per questo dunque bisogna leggere l’esordio di Moretto come romanzo, anziché come memoriale o denuncia, in quanto credo miri all’universale anziché al particolare; anche se la storia prende le mosse dal singolo arresto (dopo educata perquisizione) di Giovanni Moretto, padre del protagonista/narratore/autore, l’11 giugno 1994 per il reato di ricettazione all’interno di una complessa operazione criminale finalizzata anche al traffico d’armi, basata su intercettazioni anziché prove e su convinzioni congetturali rivelatesi erronee.

  

Ai fini letterari non è dunque necessario sapere se la storia sia o meno vera, non più di quanto lo sia decidere se il padre sia stato incastrato o solo ingenuo, se davvero abbia tenuto i conti dell’organizzazione o no, se chi lo pedinava abbia capito che stava dissociandosi dai presunti complici e non accordandosi con loro, tanto che il figlio lo definisce “commercialista non commercialista, colpevole innocente”. Questo spetta alla verità giudiziaria, che viene stabilita dopo sei mesi di carcere, altrettanti di domiciliari (solo allora si fanno vivi i primi parenti e amici) e sette-anni-sette di andirivieni in tribunale acciocché il gip decida che “in assenza di reato e di altre prove indiziarie, non vi erano gli estremi per il processo”. Né importa agli italiani, che a partire dall’arresto di Mario Chiesa hanno deciso che un po’ di calvizie, gli occhiali dalla montatura in tartaruga, il doppio mento, l’orologio dal cinturino di pelle fossero indizi per la condanna popolare, esultanti a ogni avviso di garanzia come per un goal, consapevoli che la sentenza valga più dell’accusa ma certi che l’accusa sia più importante della sentenza; salvo poi, quando viene messo il punto alla storia, essersene dimenticati ed essere passati con altrettanta leggerezza ad altre diatribe (Berlusconi, Calciopoli, Zidane). Quanto ai conoscenti del protagonista ormai adulto, i più amici sanno del padre e tacciono, specie dopo che è morto sfibrato dall’iter, i più laschi lo sfottono perché lavora in una compagnia assicurativa quindi un po’ ladro dev’essere anche lui.

 

Ecco, la vita dei nomi che abbiamo letto o ascoltato trascinati nelle indagini è un altro di quei dettagli che sfuggono quando si fa cronaca ma riemergono grazie alla letteratura, come pietre interrate contro cui cozza chi rivanga. Moretto non lesina sull’effetto verità e fra date e documenti sciorina anche i nomi del gip che, prima, esclude il reato di ricettazione e, poi, manda il padre in galera per “il rischio di reiterazione di delitti della stessa indole”; nonché del pubblico ministero convinto che il padre fosse “la mente di tutta l’operazione perché era commercialista”. Riduce invece a numeri, una decina all’anno dal ’92, i suicidi degli accusati che con la vita volevano strapparsi anche l’identità, spesso uccidendosi fuori dal carcere o dopo il proscioglimento a causa del “senso di colpa generato dall’opinione pubblica”. Su di loro si stende però la secca considerazione di un altro pm, secondo il quale “le conseguenze dei delitti ricadono su coloro che li commettono, non su coloro che gli scoprono”; frase talmente spietata che ci si consola al pensiero che si sta leggendo un romanzo pertanto dev’essere un personaggio di fantasia, questo Piercamillo Davigo.

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