(Foto Pixabay)

Che bel cinema Seul

Giulia Pompili

Scrivere bene, storie che piacciono ai coreani, zero paura di Hollywood e di Netflix. I segreti di un successo

Seul. Tutto è iniziato nel 1999 con “Shiri”, titolava qualche giorno fa il South China Morning Post. Il primo film sudcoreano, prodotto con un budget hollywoodiano, a diventare una specie di “Titanic” asiatico, un classico che tutti hanno visto. Pur non essendo un capolavoro della cinematografia, “Shiri”, scritto e diretto da Kang Je-gyu, ha avuto il merito di riavvicinare il pubblico sudcoreano alla propria cultura pop, e di riportare i coreani al cinema a guardare film non solo importati dall’America.

 

Il Nuovo cinema coreano, un movimento di giovani scrittori e registi che hanno iniziato a lavorare sin dai primi anni Duemila, è stato promosso a livello internazionale dal Festival del cinema di Busan, ma anche dal mercato: a oggi, l’industria cinematografica sudcoreana è l’unica al mondo in crescita. Un mercato dove l’arrivo di Netflix non spaventa per niente: “A distanza di un paio di anni dal suo ingresso in Corea del sud sembra che nulla sia cambiato”, dice al Foglio Justin Kim, presidente dell’associazione degli sceneggiatori sudcoreani (Sgk), famoso tra l’altro per aver scritto il kolossal “My Way”, uno dei film più costosi di sempre, uscito al cinema nel 2011, con colonna sonora cantata da Andrea Bocelli e la regia di Kang, lo stesso di “Shiri”.

 

“L’impatto per ora è limitato, perché Netflix si concentra sulle serie e sui documentari, insomma non è una minaccia per la cinematografia, anzi dal punto di vista degli scrittori è benvenuto”. Mentre in Europa c’è chi inizia a considerare le serie tv allo stesso livello dei film, in Asia c’è una distinzione netta tra quel che è “arte” e “intrattenimento”. L’unica cosa che unisce i due settori è la buona scrittura, e la capacità di trovare storie che piacciano al pubblico: “Non credo che scrivere buone storie si impari soltanto: per esempio quelli della mia generazione sono cresciuti con i film che arrivavano dall’America, ed è stata un’ottima scuola. D’altra parte, credo che le persone non siano più affascinate dal racconto del reale – per esempio la storia del mio cancro, o di come sono stato bullizzato da piccolo. La gente vuole dimenticarsi del reale. Evitando la prima persona e trasformando, non so, il cancro in un mostro invincibile, dai una nuova vita a quella stessa storia che viene dalla vita vera ma non è del tutto vera”.

 

Scrivere e avere buone idee diventa quasi più importante della regia. Anche i sussidi del governo sudcoreano alla cinematografia sono cambiati, e sostengono gli scrittori, più che i produttori o i registi. Da poco è entrato in vigore un nuovo sistema, per cui ogni anno una commissione sceglie 75 idee tra le proposte degli sceneggiatori. A quei 75 offre un budget per completare la scrittura, proporla ai produttori “e anche se da quelle storie magari escono solo cinque film, e di quei cinque solo uno ha successo, è comunque un buon risultato”, spiega Kim. Ma così non si finisce per favorire il cinema non impegnato, ma che fa cassa? “Le persone non capiscono che è grazie al cinema d’intrattenimento che possiamo fare il cinema indipendente, è quella la locomotiva. Cercare storie che piacciano al grande pubblico è come la caccia al mammuth. Quando vedi che una tribù vicina è riuscita a ucciderlo, e sembrava impossibile, e vederli lì pieni di carne e pelliccia, festeggiando, genera invidia e ambizione. Allora inizi a studiare tecniche e strategie per poterlo fare anche tu, e tutti i tentativi e i fallimenti sono una risorsa per i cacciatori di mammuth, perché si tratta di migliorare collettivamente”.

 

Ma di fronte ai mastodontici mammuth che vengono da Hollywood c’è poco da fare: “Però ogni mercato ha le sue caratteristiche distintive e peculiari. Credo che i cacciatori locali possano comunque accedere almeno al 50 per cento della quota di mercato. Questo è ciò che è successo in Corea del sud e senza alcuna protezione ’contro’ Hollywood. Inoltre quando una forma di narrazione locale guadagna popolarità, funziona come un potente specchio e la società tende a riflettere su alcuni temi”.

 

Justin Kim cita l’esempio di “Perfetti sconosciuti”, il film del 2016 di Paolo Genovese che è stato riadattato al mercato spagnolo, francese, inglese, ed è uscito da poco in Corea del sud col titolo “Intimate Strangers”, diretto da Lee Jae-kyoo, e che al box office è andato benissimo. Eppure – parliamoci chiaro – le serie tv coreane, i K-drama, avranno successo nel mercato interno ma sembrano tutte uguali, sempre centrate sull’amore tra un uomo e una donna: “È esattamente quello che dico quando parlo di ‘scrittori pigri’. Se stai facendo una serie medical, oppure poliziesca, la storia d’amore non può essere il focus della tua storia dopo due puntate. È la cosa più semplice da scrivere, è vero, ma perfino il pubblico coreano inizia a lamentarsene”. Ora che sono tornati al cinema, che vedono le serie tv di qualità, iniziano a scegliere e a indirizzare il mercato a fare sempre meglio.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.