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Hollywood, bestseller e tv. I bersagli dei critici non cambiano mai

Mariarosa Mancuso

C’è ancora chi ripete, per vantare la sua personalissima agenda culturale non influenzabile da nessuno, “non leggo i libri in classifica”

Giapponesi nella giungla. Ne restano in giro parecchi, a menar fendenti contro nemici che non esistono più. Altri scovano bersagli nuovi a immagine e somiglianza dei vecchi (ormai s’erano affezionati: nulla dura più dell’odio, l’amore non può competere). Quando Christopher Nolan girò “Dunkirk”, Goffredo Fofi partì all’attacco, infastidito perché a scuola aveva imparato a scrivere francesemente Dunkerque – si sa che l’imperialismo amerikano comincia con l’imposizione della lingua.

 

Ora sono gli asiatici a muovere verso di noi, conquistando gli Stati Uniti con film sfacciati come “Crazy & Rich” di Jon M. Chu, tra gli arci-miliardari di Singapore. Ma niente il nemico resta Hollywood, anche se produce film con un cast 100 per cento orientale. Per le altre accuse mosse dal compagno Fofi al film – scarsa spettacolarità, numero di barchette inferiore al reale, pilota d’aereo nascosto dietro gli occhiali, indottrinamento della gioventù alle guerre future – vale quel che Samuel Johnson diceva della sua città: “Chi è stanco di Londra è stanco della vita”. Chi si annoia vedendo “Dunkirk” non ama il cinema.

 

“I migliori film italiani? Non son più neorealisti” titolava l’altro ieri La Repubblica. Dove sono i mortaretti che li spariamo? E’ stato il primo pensiero. Stai a vedere che hanno capito, escono con le mani alzate in segno di resa. Sono anni che modestamente proponiamo ai giovani registi – anche ai giovani critici – di non prendere più a modello “Ladri di biciclette” o “Umberto D.” (se avete in tasca uno smartphone, e portate pantaloni stretti che lasciano scoperte le caviglie, prendete perlomeno atto che i tempi della canottiera e del cappotto rivoltato sono finiti). I dati arrivano da un sondaggio di Film Tv: 109 tra critici e studiosi (si dà per scontato che i critici non studiano) e 50 registi hanno votato i dieci migliori film italiani.

 

Primo “La dolce vita”, terzo “Il sorpasso”: avanti così, speriamo di arrivare presto allo scavalco. Ma attenzione: “Viaggio in Italia” di Roberto Rossellini sta in quarta posizione. La coppia borghese in vacanza a Napoli, separata e poi riunita dal passaggio della processione, potrebbe risalire (a noi provoca sbadigli, deve essere perché non abbiamo studiato, ma ormai è tardi per rimediare). Intanto il giapponese nella giungla Jonas Carpignano, classe 1984 (regista di “A ciambra”, candidato italiano agli Oscar 2017) vota solo documentari di Vittorio De Seta: neanche i film, i documentari sul Sud proletario di mezzo secolo fa.

 

Non esistono solo nel cinema. C’è ancora chi ripete, per vantare la sua personalissima agenda culturale non influenzabile da nessuno, “non leggo i libri in classifica”. Senza capire che certi libri vanno letti, o sfogliati, solo quando stanno in classifica: se ne chiacchiera, e senza scomodare la letteratura hanno il loro quarto d’ora andywarholiano. Quando dalla classifica escono, non è che migliorano: leggerli è masochismo. Valeva per le classifiche remote, quando in vetta c’era Susanna Tamaro. Oggi se la giocano Camilleri, Malvaldi, Ferrante, Coelho. E’ masochismo, comunque, anche leggere i brutti libri solo perché in classifica non andranno mai.

 

“Non sappiamo cosa fare della televisione” lasciò cadere uno scrittore giovane (sui 35, smettiamo di credere che la gioventù letteraria duri fino ai 50) che stava mettendo su casa con la fidanzata. Intendeva: “Non sappiamo come disfarci dell’apparecchio televisivo trovato in casa”, con l’esatto tono di chi ha ereditato la pendola della nonna, e non sa come disfarsene. Avviso a chi ancora si vanta di non averla, la televisione: il mondo si è rigirato, tra un po’ il televisore non l’avrà più nessuno, e non capiranno di cosa parlate. I più svelti, per darsi un tono hanno già cambiato bersaglio: “Non leggo su kindle” is the new “Non guardo la tv”.

 

Ultimi – dannosissimi, però – i giapponesi nella giungla convinti che lo storytelling sia il male del mondo, un mostro da sconfiggere a colpi di libri, saggi e tweet. Ma di questo, domani.

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