Foto tratta dalla pagina Facebook Teatro Litta MTM

Il massacro del Circeo e la violenza che contribuiamo tutti a seppellire

Simonetta Sciandivasci

Uno spettacolo teatrale di Filippo Renda al Teatro Litta di Milano

Quando hanno chiesto a Filippo Renda, il regista di “Circeo. Il massacro” (da questa sera al Teatro Litta di Milano), perché il suo spettacolo metta in dubbio che il delitto del Circeo sia stato un crimine assurdo, lui ha risposto: “Mettiamo in dubbio che si sia trattato di un evento inspiegabile e straordinario. Quella violenza racconta esattamente una società”. C’era il Piombo. Era il 1975: solo quell’anno, in Italia, ci furono 11.000 stupri, uno ogni quaranta minuti. Non molti mesi prima, Angelo Izzo, uno dei tre assassini, era stato accusato e condannato per aver sequestrato e violentato una sedicenne. Relegare la violenza nello spazio finito dell’eccezione, dall’altra parte della barricata che frapponiamo tra bene e male, forse l’ultima barricata che resiste alla fluidificazione di tutto, è un’operazione di rimozione che continuiamo a fare, e per rendersene conto basta leggere il modo in cui abbiamo reagito ai fatti di Prato, il bisogno che abbiamo avuto di scrivere che “anche una donna può commettere violenza”, come se la violenza avesse un genere sessuale e, come il genere sessuale, arrivasse dal caso. E’ una rimozione che ci serve a tenere in piedi due idee: la redimibilità e l’imponderabilità del male. Riusciremmo a credere nell’essere umano se accettassimo che nessuna disintossicazione (dalla mascolinità, dal patriarcato, dall’alienazione) può metterci al riparo dalla violenza, e se accettassimo che il male ha radici precise, tutte strutturali, tutte terrene, tutte umane? Forse, no. Per questo diciamo “bestia” a chi tortura, o uccide, o stupra. E’ un esercizio di rimozione. Quel che resta del manicheismo è tutto qui, nel contrapporre l’uomo all’animale. “I responsabili della carneficina sono in molti e si comportano come se quello che hanno fatto fosse naturale, come se avessero dietro di loro un ambiente e una mentalità che li comprende e li ammira”, scrisse Italo Calvino sul Corriere della Sera, a proposito del delitto del Circeo.

 

Renda ed Elisa Casseri, che hanno coscritto la sceneggiatura, hanno ragionato su come il processo di rimozione in cui indulgiamo davanti ai fatti più atroci contribuisca alla loro “normalizzazione all’interno del quotidiano, dove la violenza si mescola all’aria che respiriamo fino quasi a non farsi vedere più”. Il 1975 e il 2019 hanno in comune la proclamazione costante di un nemico, il linguaggio sboccato e truce, la difesa di uno status quo depotenziato dall’evolversi delle cose: tutte cose che contribuiscono a quella normalizzazione, a quell’assorbimento.

 

Fuori campo si sente la voce di Donatella Colasanti, la sola sopravvissuta delle due vittime di Angelo Izzo, Gianni Guido e Andrea Ghira. Risponde a domande simili a quelle che le pose Enzo Biagi, in quell’intervista storica nella quale lei disse che il Circeo riguardava tutti, non solo le donne, ed era stato qualcosa di più di uno stupro (Biagi le disse: “Lei sembra più arrabbiata con le femministe che con i suoi aguzzini”).

 

Il lavoro di Renda si occupa anche, forse soprattutto, di come non venne consentito a una sopravvissuta di sopravvivere davvero, interrogandola per sempre sul perché, su come fosse potuto succedere, forsennatamente bisognosi come eravamo e saremo di una spiegazione dell’orrore che servisse a farci dire “non mi riguarda”. Colasanti chiese il diritto all’oblio ma non l’ottenne: era importante che la testimone di una tragedia restasse a nostra disposizione, che ci aiutasse a capire, a storicizzare, a ricordare. Non le è stato permesso di liberarsi mai per lasciare liberi noi, rimasti fuori da quella villa, in quel posto che porta nel nome la maga che trasformava gli uomini in porci.

 

Nella pièce accade qualcosa che Colasanti immagina: due coppie di sconosciuti si incontrano e decidono di fare un gioco che si trasforma, da subito e in modo sottilissimo, in uno stillicidio di prevaricazioni piccole, minuscole, calcate sul quotidiano, fino a un colpo finale. E’ così che agisce la violenza: non per lampi, ma per stratificazioni al cui seppellimento contribuiamo tutti.

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