Verrocchio, "L'Arcangelo Raffaele a Tobiolo", 147', Londra, National Gallery. Ora alla mostra "Verrocchio – il maestro di Leonardo" a Palazzo Strozzi e al Museo del Bargello, Firenze. (Foto Wikipedia

Verrocchio, l'artista chiave del Rinascimento

Maurizio Crippa

Il maestro di Leonardo, ma non solo. Una grande mostra per celebrare un genio italiano. La ricerca della perfezione, la sperimentazione, la centralità della “bottega”. Una lezione molto attuale

“Sono un razionalista. In realtà penso prima di fare, al contrario di quello che dicono gli americani: do it, che mi sembra un po’ primitiva come frase”. Sembrerà irriverente, ma non si può escludere che Andrea di Michele di Francesco di Cione, figlio di un fabbricante di piastrelle, che diventò Andrea “del Verrocchio” perché giovanissimo andò a bottega da un Giuliano Verrocchi, avrebbe apprezzato – fosse nato oggi anziché attorno al 1435 – l’accostamento con un architetto-designer-fotografo-artista come Ettore Sottsass, capace di lavorare per le grandi committenze e di stare sul mercato, di sperimentare tecniche e materiali e di plasmare il gusto del suo tempo, e di donargli un imprinting. Ma sempre inseguendo una propria, intima, idea di forma. Di perfezione, di bellezza. Un modo di essere artisti più pensato che emozionale (quello di Verrocchio, almeno), ma estremamente consapevole del proprio lavoro. Ricerca, bottega, realizzazione.

 

Le botteghe sono tutto, anche se oggi si chiamano factory. Quando funzionano bene sono piene di maestri, segnano una genealogia, lasciano tracce riconoscibili. “Verrocchio - Il maestro di Leonardo” è il titolo intelligente di una mostra importante a Firenze. Non è soltanto un titolo-marketing, un cedimento alle pressioni del turismo museale. Nell’anno del cinquecentenario di Leonardo l’unica cosa sicura è che non si può allestire in Italia una mostra di Leonardo, tantomeno a Firenze: la fanno a Parigi. La scelta lungimirante, a Firenze, è allestire una grande esposizione dedicata al suo maestro, e maestro di molti altri: Andrea del Verrocchio. La mostra che è stata inaugurata il 9 marzo a Palazzo Strozzi (fino al 14 luglio) e nella seconda sede al Museo Nazionale del Bargello (la “casa” naturale, per Verrocchio) è affascinante e istruttiva, come dovrebbero essere sempre le mostre, soprattutto quelle patrocinate da istituzioni pubbliche – in questo caso pubblico-private come la Fondazione di Palazzo Strozzi assieme a un museo d’interesse nazionale come il Bargello.

 

Istruttiva non solo perché è il frutto di un lavoro preparatorio di oltre quattro anni, programmato dal direttore di Palazzo Strozzi, il poliedrico Arturo Galansino, e costruita con acribia sugli studi verrocchieschi lunghi una vita dei due curatori: Francesco Caglioti, docente di Storia dell’Arte moderna all’Università di Napoli e Andrea De Marchi, che insegna Storia dell’arte medievale a Firenze. E non soltanto perché è la prima completa mostra monografica mai dedicata a un grande del Rinascimento, anzi a un uomo-chiave del Rinascimento senza il cui lavoro di bottega il Rinascimento sarebbe stato diverso. Ma soprattutto perché si capisce cos’è il genio. Il genio italiano (quello vero: capace di portare frutti a lungo e nel mondo). Il genio del Rinascimento: pensare, immaginare, progettare, fare, sperimentare. Con destinazione ideale la perfezione. E mettere a frutto lavoro e insegnamento confidando su committenze illuminate, senza la ridicola paura (tutta nostra) del potere politico: Verrocchio fu “l’artista” per eccellenza dei Medici. Fare una passeggiata nel Rinascimento con Verrocchio è un piacere degli occhi e un insegnamento molto attuale: in questo tempo in cui dominano il disamore per la competenza, per la sperimentazione e la ricerca della perfezione.

 

“L’artista” per eccellenza dei Medici. Una passeggiata che è un piacere per gli occhi e un insegnamento valido ancora oggi 

Entrate nella prima sala di Palazzo Strozzi. Vi accolgono tre busti di donna, marmi diafani. Il primo, austero, è di Desiderio da Settignano (si comincia da uno dei maestri del maestro). Poi c’è la Dama col Mazzolino, uno dei capolavori di Verrocchio. In fondo, occhieggiano da un piccolo foglio due mani femminili, sono uno dei disegni di Leonardo giunti per l’occasione dal Castello di Windsor che punteggiano, preziosissimo contrappunto, tutto il percorso. Siete già catapultati nel magnifico struggimento della perfezione che è il Rinascimento, col suo culto del bello, e la sua attenzione alla ricca società mercantile di Firenze, il suo gusto della classicità e dell’eleganza. E quel lieve senso della malinconia e della giovinezza che volto dopo volto, bassorilievo dopo statua, Madonna dopo Madonna (una sala strepitosa: da Botticelli a Verrocchio a Perugino, una serie di multipli che creano una maniera, e un modo della devozione rinascimentale) che il sorriso delle Madonne, dei Bambini e degli eroi porta inevitabilmente con sé. C’è anche uno splendido Tobiolo e l’angelo, una tipica commissione privata-devozionale dei mercanti che facevano partire i loro figli per i commerci in luoghi lontani, e li volevano affidare all’immagine dell’Arcangelo Raffaele che nell’episodio biblico accompagna il suo giovane protetto.

 

La Dama col Mazzolino, uno dei capolavori di Verrocchio, al Museo del Bargello di Firenze (Foto Wikipedia)


 

Andrea del Verrocchio si porta addosso invece un’antica maledizione, targata Vasari ovviamente, dacché nelle sue Vite scrisse che fu “aiutato più dallo studio che dalla natura” e perciò fu “tenuto duro e crudetto nella maniera de’ suoi lavori”. Insomma più bravo che geniale, e certo meno del suo maggiore allievo, Leonardo. E questo per secoli ne ha come offuscato il tratto principale, il suo essere un artista universale, uno dei più completi che la storia abbia mai prodotto. Orafo, architetto, scultore, cesellatore, massimo artista del bronzo, sperimentatore continuo del disegno e dei materiali e poi, in età più adulta, pittore. E anche qui, sempre via Vasari, a lungo si è dubitato che fosse un eccelso pittore: “Eccesso di studio”. Ma, si domandano i due curatori: “Ma come poterono imparare da lui Perugino e Leonardo, Ghirlandaio e Bartolomeo della Gatta e Lorenzo di Credi, se egli non avesse insegnato loro con l’esempio?”.

  

Il lungo lavoro attorno al volto del Salvatore per la “Incredulità” di Orsanmichele: la definizione di un nuovo modello imitato da tutti

 Ecco, pensandoci bene: “Maestro di…” non è uno sminuire. Genealogia, si diceva. Arte è anche un tramandare, un elaborare e un trasformare, fino a creare non una scuola, ma un’intera visione del mondo, del suo bello, del suo spirito. All’inizio della mostra c’è un utile albero genealogico. Verrocchio è discepolo di due sommi scultori: Desiderio da Settignano e l’enorme Donatello, di cinquant’anni più vecchio di lui. Poi alla sua bottega imparano tutte le arti e le tecniche e i materiali Leonardo (più giovane di lui solo di diciassette anni) e Domenico del Ghirlandaio, che a sua volta sarà maestro nella pittura di Michelangelo, e Perugino, che a sua volta insegnerà a Raffaello. Basta e avanza, per guadagnarsi un ruolo da kingmaker delle fortune del Rinascimento.

 

La sua bottega, che stava dietro l’abside di Santa Maria del Fiore, è un esempio eccellente di cosa siano stati quel periodo e quella città, in un continuo commercio virtuoso tra sacro e mercantile, tra potere politico e una società ricca ed espansiva capace di generare, tra le molte cose, anche un sistema delle arti magnificamente moderno. Non uno qualunque, Andrea del Verrocchio con la sua factory, se aveva solo trentaquattro anni quando il Magnifico gli affidò la realizzazione della tomba di Giovanni e Piero de’ Medici, in San Lorenzo. E se ne aveva solo trentasette quando Lorenzo e Giuliano gli commissionarono il David, destinato a diventare un simbolo stesso del potere e delle vittorie della Signoria. O se Sisto IV lo chiamò a Roma per lavorare alla sua nuova Cappella e se la Sistina è tanto “di Verrocchio”, per mano dei suoi molti allievi che vi lavorarono, quasi quanto lo è di Michelangelo. “Maestro di…” non è un di meno, è un di più. Nell’ultima stanza dell’allestimento c’è una piccola Madonna col Bambino in terracotta. Splendida. La targa a lato dice: Leonardo da Vinci. Al Victoria and Albert Museum dove è conservata, è catalogata invece come opera di Rossellino. Un azzardo? Non secondo Francesco Caglioti, che quella statua studia da molti anni, ed è convinto che sia una delle più affascinanti testimonianze di quanto Leonardo abbia imparato dal suo Maestro.

 

Entrate nelle due sale nel cortile del Bargello dove è allestita l’altra parte della mostra. Di fronte a voi, all’altezza appropriata – la stessa a cui la videro i fiorentini il 21 giugno 1483, quando fu posta nella nicchia di Donatello all’esterno di Orsanmichele, sulla via de’ Calzaiuoli dove ora c’è una copia – c’è l’Incredulità di San Tommaso. Fu allora che “tutto il mondo vide”, come scrive Caglioti citando il cronista Luca Landucci, “la più bella testa del Salvatore ch’ancora sia stata fatta”. Orsanmichele non è un luogo qualsiasi, neppure per i fiorentini. E’ per molti versi un unicum al mondo, una chiesa-santuario che era però anche loggia di mercanti, e luogo di incontro delle rappresentanze di arti e mestieri, e all’occorrenza deposito per il grano. Il luogo in cui tutto si tiene, tra vita secolare e religione. E l’opera di Verrocchio fu commissionata appunto dal Tribunale della Mercatanzia, l’organo che dirimeva i contenziosi tra le Arti. Una consacrazione, per Verrocchio, più ancora di quando, nel 1471, fu lui a collocare la sfera di rame in cima alla cupola di Brunelleschi. Per l’Incredulità, queste due mirabili figure in bronzo a grandezza naturale, Verrocchio impiegò quasi vent’anni di lavoro. Per la difficoltà tecnica dell’opera, certo. Ma anche per trovare quel volto di Cristo, che doveva essere il più bello mai immaginato.

  

Verrocchio si porta addosso una maledizione, targata Vasari ovviamente: scrisse che fu “aiutato più dallo studio che dalla natura” 

Quella figura “radiosa di calma e di misericordia entro la cornice perfettissima dei lunghi boccoli e della barba ben spariti – scrive Caglioti nel catalogo (Marsilio) – era pronta a far breccia: Firenze, la toscana e l’Italia medio-alta furono inondate per quasi mezzo secolo di busti in terracotta, in stucco e in gesso plasmati da allievi, seguaci e rivali del maestro”. Ma Verrocchio, lungo gli anni di preparazione, aveva lavorato molto a quell’immagine sacra e un po’ olimpica, a quel Volto pieno di una misericordia e di una benevolenza divina e così umana. A fare da quinte al capolavoro, ci sono infatti tre di questi suoi busti del Cristo, e alcuni altri esistono probabilmente, ancora non individuati, oltre a quelli di allievi e “rivali”. La ricerca della perfezione dell’artista fu a lungo impegnata, per forgiare questa immagine “nuova” del Salvatore. E’ il senso di una sperimentazione continua, ben collegata alla committenza privata, di chiese e di confraternite, che andava costruendo lungo il Rinascimento anche una sua nuova e propria idea della religiosità. Così come si vede nella stanza attigua, dove sono esposti soltanto dei crocefissi lignei, sempre in un gioco di rimandi e di rivalità tra Andrea e i suoi allievi.

 

Orafo, scultore, architetto, maestro del bronzo, pittore perfezionista nell’uso dei materiali. Prototipo dell’artista universale

 La mostra fiorentina di Verrocchio è una scoperta, un percorso raffinato, forse anche perché non è realizzata da due curatori professionali, ma da due studiosi che alla competenza, all’erudizione e alla possibilità di poterla trasmettere dedicano il proprio impegno professionale. Un intreccio di passione e ricerca. Così, visitando le sale del Bargello consacrate a Verrocchio e al suo “maestro” Donatello in compagnia dell’eccellente direttore dei Musei, Paola D’Agostino – che ha creduto e si è spesa per questa inedita collaborazione tra due istituzioni che distano, che meraviglia, poche centinaia di metri – è quasi senza sorpresa, ma con gratitudine, che la si ascolta mentre dice: “Ogni mattina venire a lavorare qui è un privilegio”. Celebrare Andrea del Verrocchio è anche un modo, molto attuale, di spendersi a favore della competenza, della qualità, del lavoro ben fatto, di istituzioni culturali che svolgono il loro compito con bravura. Il magistero di Verrocchio.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"