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Via i romanzi dalle serie. Meglio i racconti brevi

Simonetta Sciandivasci

Roald Dahl e il colonnino amoroso del Nyt diventano serie tv

Roma. Modern Love, il colonnino amoroso del New York Times, diventerà una serie tv (vedete a quante cose possono servire i giornali? E – appello – bisognerebbe fare lo stesso con le rubriche di Natalia Aspesi e Barbara Alberti). La produrrà Amazon, e vai a dar torto agli americani, che si fidano prima di ogni cosa dell’esercito e subito dopo di Amazon, “perché fa sempre quello che promette”, ha scritto il New York Magazine. Le puntate dureranno mezz’ora (che benedizione) e saranno indipendenti l’una dall’altra, come in un’antologia di racconti.

 

Diventeranno una serie tv anche le “Storie impreviste” di Roald Dahl: lo ha annunciato la società di produzione indipendente The Ink Factory. Stesso schema: episodi brevi e autonomi. Non che sia una novità: “Black Mirror”, la serie che ha messo la distopia sulla bocca di tutti, lo ha già fatto ed è solo uno degli esempi più recenti e, probabilmente, quello che ha mostrato in maniera maggiormente evidente i rischi che corrono le serie antologiche, cioè il calo creativo, la vena che s’esaurisce, la narrazione che si esautora.

 

Trovare dodici idee, storie, finali, colpi di teatro per dodici puntate non è semplice, e di stagione in stagione può diventare persino impossibile. Se, nonostante questo, produttori e autori di serie tv stanno virando massicciamente verso le serie antologiche è perché quelle classiche hanno provato il pubblico. Hanno indugiato troppo sulla narrazione, sui dettagli, sulle introspezioni psicologiche (abbiamo scritto spesso negli ultimi anni che la nuova letteratura si stava scrivendo per la tv), e il pubblico è diventato sempre più impaziente, indisponibile al racconto per il racconto e affamato, invece, di azione e soluzione. Vogliamo storie che si concludano e che lo facciano in fretta, così possiamo passare alle altre, e possiamo farlo quando e se ne abbiamo voglia (Tinder è diventato una regola di condotta).

 

Vogliamo poter scegliere cosa guardare: tre episodi su dieci, o uno su dieci, svincolandoci dall’obbligo della trama, e pure dalla dipendenza del “vediamo come va a finire”. Sembra ieri che eravamo tutti malati di binge watching e smettevamo di uscire e restavamo sul divano a divorare serie tv, senza lavarci, senza levarci mai il pigiama, notti magiche inseguendo eroi e regredendo alla vita dei fuoricorso. Ci siamo disintossicati? Starete pensando: ma c’è la Elena Ferrante Fever! Eh già. Ha scritto il Guardian che, negli ultimi anni, le serie televisive sono state così ben fatte e appassionanti da viziare il pubblico, abituandolo a uno standard impossibile da mantenere a lungo.

 

Non appena il livello ha preso – anche se impercettibilmente – a calare, gli episodi ad annaspare, la narrazione a illanguidirsi, il pubblico se n’è accorto. Rispondere con una sovrapproduzione dell’offerta non è stato efficace, e così s’è pensato di saccheggiare non più i romanzi, ma i racconti, che se da una parte sono più agili, dall’altra sono anche infinitamente più densi, e quindi più complessi da trasporre.

 

Hemingway era Hemingway e quindi il racconto più breve del mondo lo scrisse per gioco, per scommessa, un pomeriggio all’Algoquin di New York. Era questo: “In vendita. Scarpe da bambino. Mai usate”. Immaginate quanto lavoro ci vorrebbe per farne un episodio di trenta minuti. E che sfida affascinante sarebbe. In Italia, i racconti sono il babau degli editori e non si capisce bene il motivo, visto che l’arte del racconto è nata in Italia (Boccaccio dice niente? Era uno nato un po’ prima di Carver), ma magari adesso che le serie tv attingeranno dalle short stories, ci si deciderà a pensionare questo sciocco insensato tabù. Nella vita comandi fino a quando hai stretto in mano il tuo telecomando. E la app di Tinder.

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