Chi siederà sul Trono di spade

Edoardo Rialti

“Fuoco e sangue”, il nuovo libro di George R.R. Martin, racconta l’origine della storia fantasy più seguita al mondo e ci dice molto sulla storia politica dei giorni nostri. Parola di chi lo ha tradotto

Edoardo Rialti è il traduttore di “Fuoco e Sangue”, il nuovo libro di George R.R. Martin uscito ieri per Mondadori


 

Sediamo sulla nuda terra e raccontiamo tristi storie della morte dei re: come alcuni sono stati deposti, altri uccisi in guerra, altri perseguitati dagli spettri di coloro a cui avevano tolto il trono; alcuni uccisi in sonno, alcuni avvelenati dalle mogli e tutti assassinati.

William Shakespeare, Riccardo II

  

Due gesti si fissano a distanza, nella storia del fantasy contemporaneo: quello di chi riesce a trascinarsi, nudo, spezzato e tremante sulla soglia di un vulcano titanico, nel quale vorrebbe gettare un talismano dal potere illegittimo, perché assoluto, la cui sola rinuncia può forse permettere rapporti equilibrati tra i popoli, e quello di chi invece lotta per salire su uno trono forgiato con le spade di tutti i nemici sconfitti, uno scranno che ferisce anzitutto chi vi si asside. Due diverse immagini, due gesti intorno a cui s’imperniano le opere che hanno segnato, con diversa levatura e modalità, la storia non solo del fantastico contemporaneo ma, quel che è più significativo, dell’immaginario collettivo. Il Signore degli Anelli di J. R. R. Tolkien resta certamente il libro-spartiacque, ed è corretto affermare che il fantasy può essere ancora suddiviso in a.T. e d.T., ma anche i romanzi de Il Trono di Spade di George R. R. Martin costituiscono a loro volta un evento decisivo, che talvolta ha assorbito numerose strade che li precedevano, assurgendo a portabandiera di un altro modo di fare fantasy, che invece proviene da molto lontano. E’ una semplificazione, ma provvista d’una qualche efficacia, sostenere che dopo i John Ford del fantastico vengono i Sergio Leone, che investigano le pieghe e le piaghe del genere stesso, seguiti a loro volta dal citazionismo ironico dei Tarantino.

  

Certamente, l’Anello del Potere non era la bomba H e Sauron non era Hitler (“i nostri problemi col Signore delle Tenebre risalgono a qualche tempo prima” borbottò Tolkien in televisione); il creatore degli Hobbit non amava affatto l’allegoria e preferiva quella che chiamava applicabilità, ma è pur vero che ogni racconto fantastico è “intessuto di necessita e realtà”, come notò Calvino: semmai sono gli eventi del mondo reale che hanno la strana tendenza ad adeguarsi a esso, affermò il sodale C. S. Lewis. Col senno di poi ciò risulta vero dello stesso Martin, e in misura impressionante. Sulla soglia del secondo decennio del nuovo millennio, in un mondo dove ovunque si innalzano muri, milioni di lettori e telespettatori aspettano bramosamente di sapere come proseguirà una storia concepita negli anni Novanta che ha al suo centro una gigantesca Barriera e dietro la quale si annida una minaccia che troppi si rifiutano di ammettere, un pericolo in procinto di far ripiombare il mondo della storia e del potere ordinario – con le sue glorie e miserie – in un conflitto preistorico, lo scontro mitico e basilare della sopravvivenza stessa. Tra giorno e notte, calore e gelo, vivi e morti.

 

 

E in questo mondo di opposizioni apparentemente inconciliabili (bruti-uomini civili al Nord, padroni-schiavi al Sud) Martin tratteggia il percorso di formazione di due figure di autorità credibili, capaci di intravedere una terza via. Jon Snow, il bastardo che decide di allearsi con i Bruti stessi nell’unica grande guerra contro i morti che avanzano, e Daenerys Targaryen, unica sopravvissuta dei valyriani cavalca-draghi detronizzati venti anni prima, nella cui vicenda Martin fonde genialmente la “leggenda” di Anastasia Romanov (il cui nome significava a sua volta “spezzatrice-di-catene”) e la storia di Martin Luther King: l’ultima erede di una decadente stirpe imperiale tarata dalla tirannide e dalla follia e il liberatore degli oppressi. 

       

“Fuoco e sangue” è una lunga inchiesta sulla natura del potere e sul mistero del cuore umano innalzato e gravato dall’autorità

Non sappiamo dove convergeranno ghiaccio e fuoco, verso quale apocalittica strettoia. Tuttavia, prima di scoprire chi – e se – salirà “sul” Trono di Spade, possiamo vedere come si è guardato al mondo “dal” Trono di Spade stesso, nella storia degli avi di Daenerys. Fuoco e Sangue, il nuovo libro di Martin appena pubblicato in tutto il mondo, costituisce infatti una vasta cronaca storica vergata dall’immaginario calamo di un maestro della Cittadella, al pari di quei Mirrors of magistrates che ispirarono i drammi shakespeariani o i volumi di Thomas Costain sui Plantageneti. Le vicende dei re e delle regine, le loro guerre e riforme, matrimoni e rapporti col Credo, amicizie e strazi privati, tutti accompagnati dal rapporto unico ed enigmatico con i draghi che solo i Targaryen sanno cavalcare, è anche una lunga inchiesta sulla natura del potere e sul mistero del cuore umano innalzato e gravato dall’autorità. Martin aveva affermato più volte che studiare la storia obbliga a fronteggiare una verità scomoda e al tempo stesso suggestiva, che in questo testo si fa quasi una dichiarazione di poetica: “Tutti gli uomini sono peccatori, ci insegnano i Padri del Credo. Persino i più nobili fra i monarchi e i più cortesi fra i cavalieri possono ritrovarsi travolti da ira, lussuria e invidia, e commettere azioni che li colmino di vergogna e insozzino i loro nomi. E i più vili fra gli uomini e le più malvagie fra le donne possono parimenti essere buoni di tanto in tanto, giacché amore, compassione e pietà albergano persino nei cuori più neri. ‘Noi siamo come gli dèi che ci hanno creati’ scrisse septon Barth, l’uomo più saggio che abbia mai servito come Primo Cavaliere, ‘forti e deboli, buoni e cattivi, crudeli e gentili, eroici ed egoisti. Tenetelo a mente, se desiderate regnare sugli uomini’”.

    

È uno sgargiante arazzo di eventi grandi e piccoli, vittorie epiche e tradimenti meschini, figure sinistre o dolorosamente spezzate

Si stende così uno sgargiante arazzo di eventi grandi e piccoli, vittorie epiche e tradimenti meschini, figure sinistre e incomprensibili o dolorosamente spezzate, devozioni struggenti, eventi a lungo pianificati e colpi di testa, entrambi soggetti all’imprevedibile dominio del caso, ma Fuoco e sangue soprattutto è una sfilata di figure d’autorità, tutte alle prese con la gloria e il tormento di sedere sul Trono di Spade: figure nobili o imbelli, pacificatori reali e meri gaudenti preoccupati di mantenere lo status quo, regine dominate da ambizioni brucianti o capaci di sfidare tutte le convenzioni in nome d’un sogno privato, golose e futili oppure malinconicamente, ironicamente intrappolate nelle angustie della società. Le loro scelte e vicende si intrecciano non solo con quelle dei lord delle grandi casate e i pastori del clero, ma con i drammi e le esigenze di tutto un popolo, con le generosità e meschinità della folla, capace di eroici slanci e credulità sanguinarie: “Saranno anche ubriachi, ma un uomo ubriaco non conosce la paura. Stolti, aye, ma uno stolto può uccidere perfino un re. Ratti, certo, ma mille ratti possono divorare un orso”.

  

In Viserys, Rhaenyra, Rhaenys, Visenya, Maegor il Crudele si scorgono certamente tratti ed echi dei sovrani inglesi ed europei del passato, Federico II e Caterina la Grande, Maria Antonietta e Giovanni Senza Terra, ma anche Nixon e Hitler, Eleanor Roosevelt e Kennedy. La storia si apre con Aegon I, che letteralmente plasma trono e regno con la stessa spigolosa nettezza (“si narra che il Trono di Spade sia stato forgiato con fuoco, acciaio e terrore, ma, una volta che il metallo si raffreddò, divenne lo scranno della giustizia per tutto il continente occidentale”), affiancato dalle sue formidabili consorti-sorelle, una sorta di mitica triade per tutti i loro successori, fino ad Aegon III, che invece non riuscirà neppure a sostenere la vista dei draghi con cui l’omonimo avo aveva conquistato e unito i Sette Regni. Incontriamo Aenys, magnifico ma debole perché “voleva piacere a tutti” e Maegor il Crudele, che invece voleva essere solo “temuto da tutti” e gestirà il contrasto col Credo Militante in un modo che non sarebbe certamente spiaciuto a Cersei Lannister, mentre infetta il regno con la sua tirannia e l’ossessione di un erede biologico. Ma il centro del libro è certamente dedicato alla grande coppia Jaehaerys I ed Alysanne la Buona, il Conciliatore ironico, ricettivo, infaticabile, capace di perdonare e valorizzare, preoccupato di migliorare le strade anziché scatenare guerre, e la sua degna compagna, l’Eleonora d’Aquitania dei Sette Regni, per ammissione dello stesso autore. Alysanne non è una guerriera o una stratega, ma una sovrana capace di ascoltare e farsi ascoltare, che istituisce le corti delle donne, dove le vedove e persino le prostitute ricevono udienza, e vorrebbe far studiare le ragazze alla Cittadella. Una donna capace di tener testa al proprio re anche in materia di successione, che persino l’illuminato Jaehaerys vorrebbe solo maschile (“Chi governa abbisogna di una buona testa e di un cuore leale” disse, come è noto, al re. “Un membro virile non è necessario. Se vostra grazia ritiene davvero che alle donne manchi l’intelligenza per governare, chiaramente non ha più bisogno di me”).

 

I generi narrativi sono sempre degli specchi, e la narrativa fantastica è a sua volta uno specchio, seppure incantato

  
Non un idillio o un’utopia, dunque, ma una grande storia d’amore e di governo, scandita da gioie e dolori, che si chiude con due vecchi che si sorridono malinconici, nello stesso luogo solforoso dove aveva avuto inizio il loro amore. Tuttavia è una triste verità che “i semi della guerra sono seminati in tempo di pace”, ed è proprio sotto Jaehaerys che inizia a profilarsi quello che, due generazioni dopo, sarà il conflitto più devastante, la spaventosa guerra civile tra due rami della famiglia Targaryen, e tra draghi e draghi. Gli anni conosciuti come La Danza dei Draghi sono invece il vertice tragico del libro, dove le colpe e i meriti, i torti inflitti e subìti si fondono in un turbine che non risparmia nessuno e nel quale vediamo ascendere e precipitare una serie di figure memorabili e sfaccettate, creatori e sterminatori di re, fanatici religiosi e guerrieri, regine che vorrebbero fare il bagno nel sangue dei propri nemici e principesse suicide. E l’insondabile cuore dei draghi.
    
Gli eventi stessi sono un prisma che assume una luce diversa a seconda della prospettiva e della fonte riportata. Chi ha ragione nel attribuire azioni e parole, meriti ed errori, il devoto septon Eustace o il laido nano Fungo? Un narratore più scontato si sarebbe fermato a questo perfetto finale melodrammatico. Invece no. Tolkien aveva raccontato lo strazio di un reduce che non trova pace nel mondo che ha contribuito a salvare, e Martin a sua volta non accarezza il lettore per il verso del pelo, proseguendo con una lunga coda dedicata alla generazione successiva, e ai traumi dei sopravvissuti, una scelta artisticamente riuscita, perché ha il sentore inesorabile delle cose vere. In questo primo volume, che comprende metà storia della stirpe, non ci sono dunque re o regine ideali, tuttavia è interessante notare il ricorrere, nei soggetti più chiaramente ammirati, di alcune caratteristiche comuni: anzitutto il già citato ascolto, persino degli oppositori, e la capacità di inclusione: “la riconciliazione dei Sette Regni sotto il dominio Targaryen fu la chiave di volta della politica di Aegon come monarca. A tal fine compì grandi sforzi per includere uomini (e persino alcune donne) provenienti da ogni parte del reame perché partecipassero a corte e ai concili. I nemici d’un tempo furono incoraggiati a inviare i loro figli (perlopiù ragazzi e ragazze cadetti, dal momento che la maggior parte dei grandi lord desiderava tenersi vicini gli eredi) a corte, dove i ragazzi servirono come paggi, coppieri e scudieri, e le fanciulle come ancelle e dame di compagnia delle regine di Aegon. Ad Approdo del Re assistettero di persona alla giustizia del re, e furono esortati a considerarsi leali sudditi di un solo grande reame, e non uomini delle terre occidentali, della Tempesta o delle lande del Nord”.
   
A ciò si aggiungono il contatto con il popolo, senza per questo assecondarne i moti più istintivi (come la xenofobia), il rispetto per il clero e le tradizioni ma la diffidenza verso il fanatismo e al tempo stesso l’empietà esplicita; meglio influenzare i santi padri della Cittadella con pressioni, onori e immettendovi uomini e concetti a proprio sostegno, come nella battaglia culturale di Jaehaerys per la Santa Eccezione, una dottrina che consente ai Targaryen di sposarsi tra fratelli e sorelle e che egli ha la premura di diffondere non con la violenza, ma la comunicazione: “‘Le parole sono vento’ disse al suo concilio, ‘ma il vento può alimentare un incendio. Mio padre e mio zio combatterono le parole con acciaio e fuoco. Noi combatteremo parole con parole e sederemo gli incendi prima che comincino’. E così dicendo, sua grazia inviò non cavalieri e uomini armati, ma predicatori. ‘Raccontate a ogni persona che incontrate della gentilezza di Alysanne, della sua natura soave e cortese, e del suo amore per tutto il popolo del nostro regno, grandi lord e povera gente, in egual misura’, fu l’incarico del sovrano. In sette partirono per suo comando, tre uomini e quattro donne. Al posto di spade e asce, erano armati solo della loro intelligenza, del loro coraggio, del loro eloquio”. A questa geniale capacità di creare una storia condivisa fa da contraltare l’ironia tragica – già palesata nella serie e probabilmente confermata dai romanzi in arrivo – che, secoli dopo, l’intera guerra giusta contro un altro Targaryen, il Re Folle sarà stata innescata da un’errata interpretazione dei fatti, da una storia che si è voluta credere pur di non ammettere l’inconcepibile.

   

Non sappiamo chi salirà sul trono che fu di Aegon, Viserys o Rhaenyra, né se verrà fuso. Tutto è possibile, e niente è eterno

Non sappiamo chi salirà sul trono che fu di Aegon, Viserys o Rhaenyra. Non sappiamo neppure se qualcuno infine deciderà sorprendentemente di fonderlo. Tutto è possibile, e niente è eterno. Nell’attesa per The Winds of Winter e A Hope of Spring, annunciati volumi conclusivi che fanno sospirare e protestare i lettori da otto anni, talvolta si esprime la pretesa d’una consumazione eccessivamente seriale; tuttavia forse c’è anche un’altra ragione, a sua volta speculare a quella per cui Tolkien, col potere della sua immaginazione ha risposto a una riserva di attesa negli anni dell’immaginazione al potere, la Woodstock di Frodo lives. I generi narrativi sono sempre degli specchi, e la narrativa fantastica è a sua volta uno specchio, seppure incantato.

 

Nel seguire gli errori e le vittorie, i compromessi e al tempo stesso gli atti eroici di Tyron Lannister, Arya Stark, Jon Snow e Daenerys Targaryen, desideriamo scoprire chi salirà su quell’iconico scranno anche perché sappiamo che, nel bene o nel male, come monito o speranza, sarà comunque qualcosa di noi a assidervi, a risolvere o acuire i conflitti che ci dividono e le minacce che ci ostiniamo a ignorare, a regnare e tagliarsi negli anni che verranno.