Pippo Rizzo, Treno notturno in corsa, 1926

Quando eravamo futuristi

Redazione

Anche il Figaro si accorge che l’Italia non sa pensare il futuro. Un allarme

Se ne è accorto anche il paludato e benpensante Figaro, con un bell’articolo illustrato. All’inizio del secolo scorso – ma poi i rivoli della creatività hanno irrorato a lungo molti e differenti campi – l’Italia ha prodotto un’avanguardia culturale, e non solo artistica, dirompente: il Futurismo. Un’insurrezione contro la tradizione, l’accademismo e pure la morale, una “brutale insurrezione” capace di portare vitalità anche nell’industria e nella trasformazione urbana. Mette le foto della mitica bottiglietta del Bitter Campari di Depero, il Figaro, ma anche quella del treno Settebello, che è del primo Dopoguerra, 1947. Lo aveva disegnato Gio Ponti: quando i treni andavano, e soprattutto l’Italia credeva, futuristicamente, che potessero e dovessero andare sempre più veloci. Oggi siamo ai No Tav.

 

Ma “un secolo dopo, che cosa rimane?”, si chiede il giornale francese. Cosa rimane di quella “tabula rasa del passato”, che con tutte le sue intuizioni e i suoi eccessi – come tutte le Avanguardie – non ha ovviamente cambiato il mondo, ma ha contribuito a trasformarlo con energia positiva? Domanda pertinente, e di quelle che dovrebbero suonare come un allarme. Il Futurismo è stata l’unica partecipazione dell’Italia novecentesca al fenomeno delle Avanguardie. E l’ultima volta in cui un pensiero positivo nato in Italia ha saputo contagiare l’Europa. Oggi in Italia il Futurismo è tornato ad essere materia per accademici, o al massimo per mostre da grande pubblico nei musei. Ma da allora, con poche eccezioni che si fermano agli anni Sessanta e Settanta, la cultura italiana – o l’élite del paese, per usare una parola fuori moda, non ha avuto la capacità di incidere nella storia sociale e industriale. Né soprattutto la forza di contestare l’esistente, imporre un cambiamento, una rivoluzione. Al massimo, è successo nella moda e nel design. Ma il Futurismo era di più, era la convinzione, persino forzata, di una classe intellettuale nazionale che il futuro ci fosse. E valesse la pena crearlo.

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