Ragazzi del ’99 pronti per il fronte (collezione privata Franca Piquè)

Un padre chiamato Novecento

Nadia Terranova
Incontriamo Nemesio il Vecchio in ospedale, moribondo ma sempre abituato a ruggire, in coma ma ancora attaccato alla vita. Nemo ha trent’anni e per sette mattine deve alzarsi e occuparsi controvoglia della morte imminente e impossibile del padre. Il tutto di un genitore centenario e il niente, o quasi, del figlio. Il nuovo romanzo di Marco Rossari.

E’ facile smettere col Novecento se sai come farlo: l’occidente, per esempio, sta dicendo addio al secolo breve da centodiciassette anni. Già, perché il Novecento è iniziato prima di iniziare, è iniziato nel 1899, quando è nata la generazione che sarebbe andata alla Grande guerra, e lì in mezzo nasceva anche Nemesio Viti, il protagonista del nuovo romanzo di Marco Rossari (“Le cento vite di Nemesio”, edizioni e/o, 512 pp., 18 euro). Il protagonista, Nemesio il Vecchio, è in ospedale per un ictus: è un centenario di fronte al Duemila, in coma ma ancora attaccato alla vita, alle donne e alla Storia. E’ un uomo che ha vissuto tutto: due guerre mondiali, la prima come ragazzo del ’99 e la seconda come partigiano nel posto meno partigiano che esiste cioè Salò, la nascita della psicoanalisi e la depressione da salotto, le avanguardie, il futurismo e il movimentismo, il fascismo il nazismo e il comunismo, gli anni Sessanta, la Guerra fredda, la bohème, la guerra di Spagna (“Ennò, Cristo: pure la guerra di Spagna”).

 


Marco Rossari (immagine di Youtube)


 

Ha incontrato vecchie locandiere e donne-ragno, a metà secolo ha amato discinte modelle europee e nell’era della decadenza scaltre badanti peruviane, ha attraversato un numero n di iniziazioni sessuali, ha abitato a Milano Berlino e Parigi (“Che cosa resta a un uomo, pensò, quando ha fallito in tutto? Soltanto Parigi”). Soprattutto, Nemesio è sopravvissuto alla morte di un figlio e ha fatto in tempo a farne un altro, che ha chiamato come lui, scagliando “la fionda del proprio inossidabile seme nella vagina della madre all’importante età di settant’anni, in un’epoca – il 1969, appunto – nella quale le pasticche blu erano associate al massimo a una spiacevole emicrania”: insomma, poteva ancora fare figli e ce la faceva pure a tenerli in braccio. “Sono nato da uno sperma vecchio” è l’inevitabile mantra, degno di una creatura di Philip Roth, ripetendo il quale si sveglia ogni mattina Nemo Viti, unico erede di quell’uomo appena un po’ ingombrante (“Ti presento mio padre, il secolo”).

 

I motivi per cui Nemesio II si fa chiamare Nemo, nessuno, non sono difficili da immaginare: il diminutivo è orribile, ma se tuo padre è stato il Novecento in persona il minimo sindacale che ti spetta è il diritto all’oblio. Nemo ha trent’anni e tutto quello che desidera è non essere invitato alla grande retrospettiva allo scoccare del Duemila organizzata per celebrare il percorso pittorico del Vecchio, non gliene importa nulla delle sue opere, della sua vita avventurosa e controcorrente, dei titoli esaltati sui giornali, è stufo di discendere dal fondatore del Movimento Movimento Movimento, conosciuto anche con l’acronimo MMM: lo interpreti il lettore, a seconda di come vuole dire addio a quel secolo lì, come stizzito mugugno di perplessità oppure gridolino di nostalgica goduria.

 

“Sono nato da uno…”, ma sì, meglio non pensarci, eppure allo stesso tempo “Nemesio mi fé, disfecemi Nemesio”. L’indolente bamboccione Nemo ha una settimana per dimenticare il padre, di cui è saturo di sapere tutto, e invece finirà per sapere tutto per davvero; il decrepito leone Nemesio ha avuto cent’anni per fare tutto lui, e invece finirà per fare tutto lui ancora una volta. Se questo di Marco Rossari è il romanzo di sette giorni e un secolo, un romanzo che si può attraversare in tanti modi (per esempio ridendo di meraviglia, perché l’autore è bravissimo nelle citazioni più o meno sotterranee, nei giochi di parole, nei surreali cambi di prospettiva), è anche il romanzo del confronto fra due vite, di un rapporto fra genitore e figlio in cui l’unico modo per andare avanti, ma pure per tornare indietro, è che in tempi alterni l’uno si sbarazzi dell’altro.

 

“Partire è un po’ vivere”, scrive Rossari lasciandoci scorrazzare come crononauti nei sogni di Nemo e nei giorni di Nemesio. Per sette notti il figlio viene sconvolto come in un incubo dalla vita del padre, e per sette mattine deve alzarsi e occuparsi controvoglia della sua morte imminente e impossibile. E mentre nell’esistenza del Vecchio accade di tutto, la cosa più emozionante di quella del giovane è passare davanti a un muro, sempre lo stesso, dove qualcuno ha spruzzato la scritta “Enrika ripensaci!!! by Kekko”, seguita da un cuore stilizzato, “<3”, che ricorda tanto un fallo. Quella scritta inutile, però, salva Nemo tutti i giorni: “Ripensaci. E Nemo non si ammazzava”. E’ così che vanno certe esistenze.

 

“Sono nato da… Da non si sa bene chi”, da un uomo che ha passato l’infanzia in una casa in cui girava gente come Cesare, L’Ombroso per gli amici, e una Sibilla che somiglia tanto all’Aleramo. In mezzo, il piccolo Nemesio un po’ smarrito e già destinato a un imponente futuro: “E’ solo un bambino, disse L’Ombroso, ammiccando in direzione di Nora. E’ solo un adulto, disse la Sibilla, ammiccando in direzione di Nemesio”. Nora, la madre del Vecchio, è uno dei personaggi più riusciti del libro: robusta donna di fattura ottocentesca, modesta di origini quanto tenace nell’arrivismo sociale, resiste a tutto fuorché alla psicoanalisi. Ansiosa di seguire la nuova moda che dai caffè di Vienna è arrivata e impazza nei salotti della borghesia milanese (“‘Vi trovo strana’, sibilavano le dame, sorseggiando una cioccolata nei pomeriggi nebbiosi. ‘Ho un male terribile all’inconscio’ ‘Sarà il principio di realtà’ ‘Gradisci l’interpretazione di un sogno?’”), decide di non riprendersi mai più dal trauma di un brutto raffreddore. C

 

onsiderato che la medicina era quel che era, Nora aveva perso venti figli prima di metterli al mondo ma, poiché nessuno aveva ancora deciso che l’aborto era una ferita luttuosa, per procurarsi una depressione non c’era bisogno di sottilizzare, bastava un’influenza. Così il secolo comincia un’altra volta nell’anno zero con la pubblicazione dell’“Interpretazione dei sogni” (che in realtà è del 1899, come Nemesio) e la morte di Nietzsche, il venticinque agosto, che segue di non molto quella di Dio. Dio è morto, Nietzsche è morto, e anche la madre di Nemesio non si sente troppo bene. “Sono nato da uno… Uno che passava di qua”, perché in fondo “cosa ci si poteva aspettare da uno sperma vecchio, acquoso, modesto che, per qualche laicissimo miracolo, non certo con l’impeto di un fiume in piena ma piuttosto con l’ignavia dell’ultima goccia spremuta da un limone rinsecchito, era scivolato fino all’ovulo?”.

 

Si diranno tante cose di questo romanzo di Rossari, traduttore fra i migliori in Italia (parlano con la sua voce, tra gli altri, Charles Dickens, Mark Twain, Dave Eggers e James M. Cain), autore del “Dizionario delle malattie letterarie”, recente libricino di culto pubblicato dalla rinata casa editrice ItaloSvevo, le cui pagine tocca separare all’antica, col tagliacarte, per chi ne possiede ancora uno (ma se non avete un tagliacarte, cosa stiamo parlando di Novecento a fare?). Si dirà giustamente che è un romanzo bizzarro, sagace, brillante, voluttuoso, ambizioso, totale: si spenderanno tutte le parole che si usano per ammazzare il secolo che non ne vuole sapere di crepare neanche a cent’anni, neanche dopo che gli è preso un colpo, neanche se ha un piede nella fossa, e in senso letterale, perché Nemesio il Vecchio, in coma, ha un arto marcio e inservibile. Niente, niente da fare: “capace che quello si riprende”.

 

Così è e sempre è stato, pensiamo ai funerali periodicamente celebrati da Cesare Segre, Enzo Bettiza e perfino Gianni Togni (ricordate? Era il 1992: “la fine del Novecento tra gli stranieri nel centro, tra questi bar all’aperto, è vero che non sono contento però mi piace stare qui”: il manifesto di una maledizione lanciata sulle culle). Niente, niente da fare: pluriaccoppato, pluritradito, pluriliquidato, quello bussa sempre due(cento) volte. Francesco De Gregori in “Belle époque”, una delle canzoni portanti dell’album “Sulla strada”, raccontava la notte di un soldato a cavallo fra i due secoli: “fischia il sasso, fischia il vento, sta arrivando il Novecento”. Sembra scritta nel duemiladodici, e infatti è stata scritta nel duemiladodici, quando il secolo era morto da una decade e il suo eterno ritorno se la passava sempre benissimo.

 

“Sono nato da uno sperma… Come ogni giorno la frase lo svegliò all’alba”. Ogni mattina, per tirarsi fuori dall’ignavia e dal piumone, Nemo deve pensare al sesso del padre, ogni notte alle sue scorribande. “Si poteva far l’amore per la prima volta tante volte”: nessuna di queste ci è risparmiata, dal capezzolo delle balie alla prima notte con la moglie Lotte, passando per tate, fanciulle di campagna, molestatori… Solo così, rivivendo e scoprendo le vite di Nemesio, Nemo riesce ad attraversare quasi indenne la settimana del compleanno del Grande Vecchio, i suoi cent’anni da protagonista, da grande non escluso della Storia, da pittore in mezzo a Vuotisti e Pienisti che ancora litigano sulla forma e il contenuto dell’estetica, sul ruolo dell’arte e sulla sparizione dell’autore.

 

Solo così può tollerare la festa organizzata dal Comune a due passi dal Duomo e il corpo del padre che improvvisamente si sottrae, lasciandolo da solo con l’appuntamento più odiato. Solo, completamente solo, perché la festa di Nemesio è la festa di ciascuno e di nessuno, dato che le nuove generazioni lo venerano come un dio mentre amici e parenti, tranne Nemo, sono belli che morti. Amanti, mogli, figli: l’espressione “ci seppellirà tutti” non si è mai incarnata con tanto realismo in un essere umano, cioè in un essere letterario.

 

“Sono nato…”, si è nati e basta, tanto basta quello, ed è tutto, ed è spesso troppo. “Nacque, omissis, morì”, la biografia ideale inventata da Gesualdo Bufalino potrebbe essere l’ideale di Nemo Viti. Per ogni lettera di quell’omissis, Nemesio il Vecchio ha vissuto invece barili di storie d’amore, di guerra, d’avventura: ciascuna, da sola, basterebbe a riempire il bisogno di leggenda di una famiglia intera. Non è vero che tutte le generazioni sono uguali, è una balla che ci raccontiamo per il terrore di essere nati in quella sbagliata, il terrore che ad ammettere di vivere tempi mediocri ci ricaschi addosso il compito di doverla poi arredare quella mediocrità, e allora sì che toccherebbe darci da fare. Non è vero che alcune generazioni soffrono l’ingombro dei padri: gli spazi si inventano e non si ricevono per testamento, la rivoluzione non si fa con il benestare dei carabinieri.

 

Non è vero che tutte le epoche sono interessanti, è una frase pronunciata per paura che il fallimento della nostra epoca coincida con quello della nostra vita, dunque la rinuncia a prenderla in mano. Così, giorno dopo giorno, notte dopo notte, l’insignificante Nemo Viti compie un percorso di consapevolezza e riscatto, dentro un confronto serrato e impietoso che non smette mai di essere serrato e impietoso e non tenta mai di affermare l’inverosimile, di spararla più grossa. Mai, nemmeno per un momento, Nemo sfida il padre sul terreno su cui perderebbe, e soltanto così potrà conquistare l’unica cosa che il genitore non ha mai avuto: la capacità di lasciare andare. Per ciò, appena prima della fine, noi che viviamo in tempi mediocri, noi che finora ci siamo divertiti, commossi, esaltati alle gesta del Vecchio più interessante di sempre, capiamo per quale dei due protagonisti tifavamo per davvero senza neppure essercene accorti.

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