Cinque domande che boh
L’insostenibile banalità dei “contenuti culturali” del Salone del Libro di Torino e il ceto medio riflessivo
Poiché siamo in clima di anniversari culturali, non è male ricordare che secondo Marx le idee dominanti di una società sono sempre le idee della classe dominante. Poiché viviamo in una società di democrazia diffusa, per quanto confusa, e la sua classe dominante sono le chattering class, la classe intellettualoide, sviluppo digitale e chiacchierìno del ceto medio riflessivo, non è male domandarsi di quali idee dominanti sia pervasa. Poiché siamo al debutto della manifestazione culturale (suvvia, editoriale) più importante d’Italia, il Salone del libro di Torino, che per di più è un’istituzione semi-pubblica, ci si può domandare che cosa abbiano da dirsi, il ceto culturale professionale (gli organizzatori) e il ceto medio riflessivo (insomma il pubblico) e che cosa possano produrre per il miglioramento della società, per il Futuro. Dato che il tema di quest’anno della kermesse è “Un giorno, tutto questo” (sotto l'immagine del manifesto ufficiale ndr). Il Salone è il salone, e nulla da dire. E’ un settore industriale che si mette in mostra, lo fa commercialmente meglio di Milano, vanta una lunga tradizione (il 37 per cento dei visitatori partecipa da oltre sette anni) e vale 30 milioni di euro solo per l’indotto. I libri si vendono, e conta anche il packaging, che in questo caso corrisponde all’offerta “culturale”, al mondo fatato delle Idee.
Ma qui, appunto, viene da interrogarsi. Il presidente Massimo Bray e il direttore Nicola Lagioia – persone di cultura, appunto: se no che ci stanno a fare, basterebbe un direttore vendite come all’Ikea – ritengono che il Salone “non sia solo una vetrina di eventi ma un grande produttore di contenuti culturali” (citiamo i comunicati). Hanno chiesto ad “alcune delle migliori menti del pianeta” che verranno ospiti di rispondere a “cinque domande” sull’idea di futuro. Cosicché le risposte che arriveranno “nella forma espressiva che gli interpellati preferiscono” possano essere “divulgate in diverse forme durante i giorni del Salone”. A uso, consumo e consolazione dei ceti riflessivi. Soltanto che a leggerle, le domande, si resta storditi dalla pochezza delle dimensioni ortogonali – altezza, larghezza, profondità – e dalla nulla res cogitans che la res extensa dei libri può suscitare. “1. Chi voglio essere? La nostra identità è in continua costruzione. Nell’epoca del culto di sé, chi aspiriamo a essere?”. “2. “Perché mi serve un nemico? I confini ci proteggono oppure ci impediscono di incontrarci e cooperare?”. “3. A chi appartiene il mondo? (…) Chi deve prendersene cura?”. “4. Dove mi portano spiritualità e scienza? Scienza e religione hanno dato forma alla nostra storia e al nostro pensiero. Ma sono state usate anche come strumenti di oppressione. C’è oggi una promessa di cambiamento e di futuro nella spiritualità delle religioni, nel rigore nelle scienze? O altrove?”. “5. Che cosa voglio dall’arte: libertà o rivoluzione? (…) Cos’è l’arte, e che cosa deve e può dare a tutti noi?”.
E’ un distillato di banalità cui potrebbe rispondere chiunque, da Platone a Stephen Hawking, per citarne due vivi, senza la minima speranza di poter dare una risposta che non sia superflua o idiota, o che nulla aggiunga a quel che il pubblico culturale già non sappia da solo. E’ questo il massimo di idee che la classe dominante sa produrre? Lasciando perdere Marx, il vecchio sociologo marxista Pierre Bourdieu diceva che la produzione artistica è soltanto una risposta alla domanda sociale, la soddisfazione superficiale di bisogni e desideri. Ora che siamo nell’epoca dei saloni editoriali, potremmo tradurre che è un prodotto di consumo per il consumo culturale. Il che è un po’, anche, la dichiarazione ufficiale dell’inutilità della “cultura”, umanistica o scientifica che sia, ridotta a un diversivo pop per il ceto medio riflessivo. Quello che gira tra gli stand, acquista Wilbur Smith o Eduard Limonov a seconda dell’offerta, partecipa agli “eventi” come fossero una partita di calcio. E se gli chiedete “un giorno tutto questo?” risponderebbe “boh”, che fa molto chattering class.
Intervista a Gabriele Lavia