Elsa Morante (foto LaPresse)

Nemici, una storia d'amore

Annalena Benini

Le cime tempestose di Elsa Morante e Alberto Moravia, che non si sono mai davvero lasciati. In un libro l’incontro e gli scontri, la dedizione, i romanzi, la furia, e salvarsi la vita a vicenda

“A difficili amori io nacqui” (Elsa Morante)

 

“Quando incontri la donna della tua vita accade come nella poesia quando trovi la parola giusta per il tuo verso: sai che nessun’altra potrebbe sostituirla” (Osip Mandelstam)

 

Elsa Morante e Alberto Moravia ebbero, l’uno verso l’altra, la stessa illuminazione, la stessa dolorosa certezza che li tenne uniti per tutta la vita. Ma a Moravia fu necessario più tempo per comprendere questa indissolubilità, questa vicinanza anche interiore. A lungo fu convinto che il rapporto fra lui e Elsa Morante fosse fondato sulla volontà furiosa che aveva lei di amarlo e la debolezza che aveva invece lui nel lasciarsi amare, anche quando le liti erano spaventose e l’infelicità potente. Anche quando lui non riusciva a essere completamente suo, completamente pazzo di lei come Elsa disperatamente chiedeva, “felice e fermo almeno un momento”.

 

Lei si innamorò di lui appena lo vide, in quel modo privo di quiete che ha segnato tutta la sua vita e il suo genio letterario

Elsa Morante si innamorò di Moravia appena lo vide, in quel modo privo di quiete che ha segnato tutta la sua vita e il suo genio letterario. Un modo appassionato ma non sensuale, crudele ma mai meschino, e anche se a volte fece finta di perdere i sensi e morire per punirlo della sua poca dolcezza, anche se gli diceva: “Vedo nei tuoi occhi un odio profondo verso di me”, anche se lo costrinse ad ascoltare nel dettaglio le storie di altri amori, esortandolo a non sottrarsi: “Su, non essere vile”, anche se divenne per lui, come ha detto la sorella Adriana, “la sua croce, il suo angelo sterminatore”, fu sempre pronta a buttarsi nel fuoco per difenderlo, per salvargli la vita e poi torturarlo (a Goffredo Fofi che un giorno provò a esprimere alcune critiche su Moravia, Elsa Morante, invecchiata e malata, disse: “Hai scritto tu ‘Gli Indifferenti’? No. E allora stai zitto”).

 

La loro strada insieme fu lunga, piena di tempeste, di libri scritti nella stessa casa, ognuno dentro di sé, momenti felici e momenti eroici, un matrimonio, cene con gli amici e tradimenti, urla per strada tantissime lettere e grandi dolori, ma sempre con la certezza di essere, insieme, qualcosa di grande. E di non poterne fare a meno. Adesso che Anna Folli ha raccolto con accuratezza la loro storia in un libro, “MoranteMoravia. Una storia d’amore” (in uscita il 26 aprile per Neri Pozza), è evidente come l’amore fra i due sia stato troppo grande per non diventare anche il filo della loro ambizione, della dedizione alla letteratura, del cammino di scrittori e intellettuali: sono stati sempre, diversissimi anche per metodo di lavoro, il punto di riferimento l’uno dell’altro, “solo Elsa sa dirmi parole che mi arrivano dritte al cuore”, e Elsa ha sentito forte la competizione con Moravia, ma sempre anche l’orgoglio, reciproco, di starsi accanto e di comprendere nel profondo il tormento della scrittura. Lei sapeva di avere il talento, ma solo dopo avere incontrato Moravia ha avuto consapevolezza della propria vocazione poetica, una consapevolezza che lui già aveva salda per se stesso. Lei ha sentito subito che era lui l’incontro fondamentale della sua vita, lui l’ha compreso con un po’ di ritardo.

 

Si incontrarono per la prima volta nel 1936, a Roma: Elsa aveva ventiquattro anni, aveva pubblicato qualche racconto, scriveva tesi di laurea per non morire di fame ed era immersa nella potenza e nell’insicurezza della giovinezza. “E’ bizzarra e geniale, ti stupirà”, aveva detto il pittore Giuseppe Caprogrossi ad Alberto Moravia mentre aspettavano Elsa per cenare insieme alla birreria Dreher di Piazza Santi Apostoli (esiste ancora, è la Birreria Peroni): lei arrivava in ritardo, aveva camminato avanti e indietro, era emozionata perché stava per conoscere l’uomo che aveva pensato “Le ambizioni sbagliate”, l’intellettuale borghese che lei desiderava diventare, o almeno l’intellettuale che rappresentava il mondo nel quale voleva essere ammessa: anzi lei di quel mondo voleva essere la regina. Era prima di quasi tutto, Menzogna e sortilegio verrà pubblicato dodici anni dopo, nel 1948. Lei quella sera incredibilmente taceva e ascoltava Moravia parlare e lo guardava muovere le mani. Fece una cosa coraggiosa, prima di andare via: gli lasciò le chiavi di casa (aveva due mazzi di chiavi con sé? O lui la accompagnò direttamente a casa? Parlarono di sciocchezze o rimasero in silenzio? Purtroppo Elsa Morante non ha scritto né detto nulla su questo primo incontro). Quindi ecco le parole di Moravia: “La nostra storia è iniziata la sera stessa in cui ci siamo incontrati, non è stato esattamente un colpo di fulmine ma l’inizio di un’intimità”. Per lui l’inizio di un’intimità, di un nuovo amore in cui Moravia era oggetto, desiderio, per Elsa Morante l’inizio di una missione. In tutte le raccolte di lettere che sono state pubblicate negli anni (la più bella è L’amata, uscita per Einaudi e curata da Daniele Morante, il nipote prediletto di Elsa) è evidente che nei primi anni Elsa era completamente protesa verso Alberto. Verso di lui come uomo, ma anche verso la sua posizione sociale, che sentiva dolorosamente superiore, verso la considerazione che il mondo già aveva di lui, e che lei credeva di meritare allo stesso modo.

 

I nove mesi più difficili e felici di tutta la loro vita, dentro una capanna appoggiata a una parete di roccia, con il tetto di lamiera

Lei lo ama e lo invidia, diventa cattiva per un senso di inadeguatezza, per la rabbia che le provocano le donne ricche e affascinanti da cui Moravia è circondato, per il fastidio che le crea quella naturalezza in mezzo agli agi che lei non possiede. Lui spesso è stremato da quelle discussioni, da una donna “con le scimmie sulle spalle”, lei è furiosa e spaventata dal distacco, da quella disciplina che comunque, qualunque cosa accada, lo fa sedere ogni mattina appena sveglio al tavolo per scrivere e cancellare il mondo.

 

Elsa Morante scrive alla sua amica Luisa Fantini: “A. è uno snob e io vorrei soddisfare con la mia persona il suo snobismo, avendo per esempio un’alta posizione sociale o essendo illustre. Niente di tutto questo è, e ieri quella visita alla Mostra con la coscienza di non essere una persona importante là dentro, e lui che parlava con la contessa, e io ubriaca con brutti guanti alle mani e poi non mi presentarono gli Accademici, e il suo racconto di quei giorni passati in quella villa aristocratica, di quella signora dell’aristocrazia amata da lui…Basta, è una lunga lista di umiliazioni. Credevo di averle vinte col solito pensiero che io valgo tanto, che so di essere…Un errore”. Lei ubriaca con brutti guanti alle mani, lei povera senza nemmeno i soldi per mangiare, ha dovuto impegnare al Monte di Pietà anche la macchina per scrivere per pagare i debiti, Moravia le regala alcuni vestiti vecchi e lei si fa dei tailleur, per cercare di essere degna di lui nel mondo. “Aveva un vestito nero molto aderente al corpo – ricorda Moravia – e una bella pelliccia di volpe azzurra dalla quale emergeva la sua faccia fresca, rotonda, bambina”.

 

Quella faccia fresca, rotonda, gli occhi miopi che le davano un’aria sempre trasognata, furono la giovinezza e la fiducia di Elsa, furono il tempo della sua speranza di felicità, la felicità dell’amore che desiderava tanto, senza mai riuscire davvero a trattenerla: in quegli sentiva che Moravia fuggiva, la tradiva, cercava pause da lei e dalla sua fortissima vitalità e aggressività, partiva per lunghi viaggi senza di lei. “Devo fingere di non badargli troppo, perché egli poi mi cerchi, mi insegua. Disperata fuga, disperato giocare a nascondersi. Perché dobbiamo essere così?”. 

 

“Per consolarmi, ho l’amicizia di alcuni grandi pittori e poeti che mi vengono a trovare e mi dicono che sono tanto brava, tanto bella e tanto buona e che devo abbandonare A. perché lui mi fa venire le rughe e io gli faccio venire gli attacchi. E che mai potrà cambiare perché se a 30 anni non è cambiato non potrò cambiarlo io. E io, dura come un masso a dire che io lui siamo come fratelli siamesi”.

 

La prima cena insieme alla birreria Dreher di Piazza Santi Apostoli, organizzata dal pittore Giuseppe Caprogrossi

Lei gli scriveva di mandare via le donne che aveva intorno, lui le scriveva lettere infantili di scuse, poi le diceva: è meglio finire, ma non finiva mai. Si sposarono nel 1941, in chiesa come voleva lei, senza sua madre come voleva lei, e subito Elsa litigò con la suocera, perché così era lei. Credeva di non avere niente, e invece otteneva tutto, anche di poter dire: Alberto Moravia, mio marito, e di fargli cucinare il pranzo mentre lei scriveva Menzogna e sortilegio chiusa in camera, annullando il tempo e lo spazio, dentro la furia che era il suo modo di vivere, scrivere e amare.

 

“Invidio Alberto che è così metodico. Lui non crede all’ispirazione ma alla perseveranza e qualunque cosa avvenga si mette a scrivere ogni mattina. Poi è libero e soddisfatto e la giornata gli si stende davanti placata. Io invece riesco a scrivere soltanto di pomeriggio e soltanto quando i miei personaggi mi chiamano. Ma il lavoro pomeridiano incide su tutta la giornata, proietta la sua ombra, come un rimorso, anche sul profilo innocente dei mattini. Solo il momento in cui si deve accendere la lampada sul tavolo mi salva”.

 

Ma arrivò il 1943, anche se Moravia si era abituato a convivere con l’orrore, cercava di non parlarne, non si appassionava, restava in silenzio. Elsa diceva, a chi la incitava a fuggire con Alberto: “Devo finire il mio romanzo”. Dopo l’8 settembre Moravia scopre che il suo nome è sulla lista delle persone da deportare in Germania, e lui e Elsa decidono di accettare l’invito di Curzio Malaparte e cercano di partire per Napoli con una valigia piena di scatole di sardine e vestiti leggeri. La Stazione Termini è affollata di camicie nere, ma non sono lì per Moravia. Il treno per Napoli però si ferma a metà strada perché la ferrovia è stata bombardata, e Elsa e Alberto proseguono a piedi, nella campagna, con le valigie sulla testa, arrivano a Fondi che non è sicura, trovano ospitalità da un contadino (mentre le nobildonne romane si erano rifiutate di nasconderli) e poi si inoltrano verso la Ciociaria, con un asino che porta la valigia di sardine, la Bibbia e i Fratelli Karamazov in francese.

 

Lei gli scriveva di mandare via le donne che aveva intorno, lui le scriveva lettere infantili di scuse, poi le diceva: è meglio finire

Stanno per cominciare i nove mesi più difficili e felici di tutta la loro vita, dentro una capanna appoggiata a una parete di roccia, con il tetto di lamiera, un’unica sedia e un sacco di foglie di granturco come letto. Erano giovani, avevano paura, dormivano addosso l’uno all’altra, guardavano la pioggia cadere, aspettavano di essere salvati. Non c’erano la mondanità, la competizione, il tormento, gli sbalzi d’umore, ma piuttosto la fame e il desiderio di sopravvivere.

 

Elsa salvò la vita a Moravia, gridando ai soldati tedeschi di andarsene, che nella capanna non c’era nessuno: sapeva urlare benissimo, ma rischiò di venire fucilata insieme a lui. Moravia disse che Elsa era stata grande, che senza di lei non ce l’avrebbe fatta, che in tutti i momenti difficili della sua vita Elsa era lì, con intelligenza, sensibilità e coraggio. “A Sant’Agata si era trovata nel suo elemento: pericolo, dedizione, sacrificio, sprezzo della vita”. Nei momenti eccezionali Elsa dava il meglio, nella quotidianità si innervosiva, si lasciava afferrare dai pensieri più brutti. Tornò a Roma per prendere vestiti più caldi, prese il tram appoggiandosi al bastone che usava in montagna, vestita da contadina ciociara, e la gente la guardava e diceva: “Poverina, è carina, ma è matta”. Le importava soltanto di Alberto e del suo manoscritto: in quei mesi Elsa Morante fu completamente se stessa, incredibilmente felice e ferma.

 

Questo libro segue con precisione e ricchezza di particolari, anche di fotografie, Alberto e Elsa negli anni seguenti (fino alla morte di Moravia), gli anni del successo, del distacco, dell’impazzimento amoroso di Elsa per Luchino Visconti, durante il quale a Moravia accade di reinnamorarsi di lei, e di dichiararglielo, aspettarla, assecondarla e consolarla. Lei, che si era convinta di non essere amata a sufficienza, era diventata spietata e distante, lui era diventato remissivo e disperato. “Insomma io vorrei veramente convincerti che la sola persona che ti voglia veramente bene al mondo sono io e che fai male a irrigidirti contro questo bene”. Alberto Moravia si era innamorato con eccessiva lentezza, aveva cominciato con una specie di indifferenza ma adesso il suo amore era intero, indifeso, disposto a tutto.

 

Ma lei è rimasta sempre, in fondo al cuore, la ragazza ubriaca e con i brutti guanti che gli altri guardano dall’altro in basso. Anche quando è diventata la regina. Anche dopo il successo de “L’isola di Arturo”.

 

Anna Folli ha cercato di raccontare questo amore dal punto di vista di entrambi, quindi starà al lettore scegliere lo sguardo, e forse anche decidere da che parte stare. Ma è certo che, come sperava Elsa a ventiquattro anni, loro due non si sono mai davvero lasciati. In ospedale, quando lei non voleva riceverlo, Moravia metteva una sedia fuori dalla porta e aspettava. Un giorno però, verso la fine, Elsa gli ha confessato di averlo sognato. “Mi dicevi: tu sei stata la mia giovinezza”. Sono stati molto di più.

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  • Annalena Benini
  • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.