Mario Mafai, paesaggi di Roma

La Roma mitologica e feroce di Picca

Marina Valensise

Il suo ultimo romanzo è una sceneggiatura su Roma criminale e un'autobiografia “deragliata” di questo scrittore considerato uno dei migliori in circolazione 

Aurelio Picca arriva in taxi da Velletri. Entra al Bar Danesi di via Volturno e dietro il bancone trova il genero di sor Paolo, dunque il cognato di quella Mirella De Gregori la ragazza rapita un mese prima di Emanuela Orlandi e scomparsa nel nulla. Sor Paolo è un vecchio amico di famiglia e uno dei personaggi chiave dell’ultimo libro di Picca, Arsenale di Roma distrutta, pubblicato da Einaudi, che si legge come un romanzo mitologico, una sceneggiatura su Roma criminale e un’autobiografia “deragliata” di questo scrittore considerato uno dei migliori in circolazione, “scrittore a-generazionale”, come diceva il grande Ruggero Guarini, tanto forte è in lui l’ascendenza della lingua dei classici, che riaffiora attraverso i suoi vari piani di scrittura, facendo scoprire la raffinatezza nascosta dietro lo stile apparentemente ruvido, selvaggio e persino triviale.

 

E infatti Aurelio Picca (foto a sinistra) si considera il più grande raccontatore vivente - “dopo Giovanni Verga e Domenico Rea ci sarò io”, assicura sereno, “perché sto finendo i Racconti dell’eternità, un librone dove mi misuro in racconti di 30 righe al massimo, tutti in velocità e sintesi estrema”. E pur venerando i racconti di Guy de Maupassant e amando moltissimo Manzoni, Malaparte, Domenico Rea (non quello di La dismissione, ma l’autore di Gesù fate luce) Comisso, Giuseppe Berto, Parise, Raffaele La Capria e più della Morante Anna Maria Ortese “perché più folle, esoterica e meno ridondante”, Picca sostiene di venire dalla poesia e di puntare sullo stile poetico. Addirittura si professa un foscoliano, e non un leopardiano. Per lui, infatti, la Pioggia nel Pineto di D’Annunzio è superiore al Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, “perché il grande Leopardi sta nelle Operette morali, dove coniuga fantasia antica e sentire profondo”. Ma Aurelio Picca è soprattutto un provocatore, uno che nella vita ama la sfida sopra ogni altra cosa, e coltiva il gusto dell’assoluto e la libertà di andare a rovistare nelle rovine della memoria per scalfire l’ultimo tabù.

 

E infatti Aurelio Picca si considera il più grande raccontatore vivente - “dopo Giovanni Verga e Domenico Rea ci sarò io”, assicura sereno

Nel suo libro, per esempio, affida all’io narrante una sorta di agnizione del connubio che unisce tra artisti e criminali, che poi è la vera miccia di questo suo Arsenale di Roma distrutta: “Dopo quel match incominciai a pensare che Roma fosse criminale e artista come l’indio venuto per stendere KO Nino (alias il semisconosciuto pugile argentino Carlos Monzón, futuro uxoricida, che il 7 novembre 1970, al Palasport dell’Eur, mise al tappeto il campione mondiale dei pesi medi Nino Benvenuti ndr). Pensai, senza dirlo ancora a me stesso, che i criminali e gli artisti sono una cosa sola. Feroci, spietati, nudi, estremi, senza paura pronti a morire per cercare l’assoluto. Oggi lo so che è così. Adesso Roma è piena di criminali in pantofole, inciviliti; tipi che, se devono fare il lavoro sporco, lo fanno fare addirittura ai politici. Sono identici ai preti pedofili. Invece i criminali e gli artisti di quella Roma, e Roma con essi, erano pagani e cristiani insieme. Uccidevano perché contro il mondo, Scrivevano e dipingevano per lo stesso motivo”.

 

Aurelio Picca, nella vita vera, racconta che da ragazzo, guidando senza patente, lui che sin dai 14 anni aveva l’abitudine di fare già i rodei con le GT e le Giulia degli zii, scoprì per caso i Colli Euganei. Da allora dice di andare ogni anno in pellegrinaggio in quei luoghi dove, non solo Francesco Petrarca visse gli ultimi anni di vita, ma Ugo Foscolo ambientò le Ultime lettere di Jacopo Ortis, “uno nato senza padre che diventa padre di se stesso come me, e che si pugnala proprio lì, che poi è un modo romantico di uccidersi”. E mentre lo dice, negli occhi nerissimi gli brilla un lampo di ilarità… “‘Ma che è vero?’ mi chiedevano gli amici miei scrittori Marco Lodoli e Emanuele Trevi. Sono i migliori lettori che abbia, ma pensano che uno scrittore debba andare per forza alla scuola dei cristiani…come si chiama, ah sì il San Leone Magno (teatro del romanzo fiume di Edoardo Albinati, Premio Strega 2016 ndr). Secondo loro uno non può leggere Foscolo e andare in giro con la pistola come facevo io….”

 

Non so se Aurelio Picca porti ancora indosso la Beretta, che l’io narrante del suo Arsenale ostenta come il cimelio di un amico criminale morto in carcere, dal quale eredita anche la Ferrari Testarossa con cui finisce contromano in uno scontro frontale sulla Pontina. Non so se il suo completo scuro di lino stropicciato, con sotto il maglioncino a grosse righe orizzontali gialle e grigie e collo a V, o gli stivaletti da boxeur nascondano la fondina di qualche Calibro 9…. ma quando il narratore foscoliano fa il suo ingresso al Tazza d’Oro di via Volturno sembra ridiventare bambino. “Vedi, ai tempi miei, la cassa stava qui, in quest’angolo, il bancone era un po’ diverso. Il mercato in via Montebello ancora c’è. Lì dietro c’era il Volturno, glorioso teatro sin dai tempi di Petrolini e Cacini, dove all’epoca mia recitavano Franco Franchi e Ciccio Ingrassia. Ciccio sembrava un cadavere, pallido, i pedalini sulle gambe magrissime, faceva le nottate e veniva qui a prendersi il caffè, coi mercatari bestioni che quando uscivano col vassoio del bar mi dicevano “A pisché che sta’ a fa ?” All’angolo di fronte c’era un pizzicagnolo che faceva certe ciriole al tonno buone da morire…io andavo a portare il caffè qui intorno e giravo ore intere per tutto il quartiere…”

 

Pensai, senza dirlo ancora a me stesso, che i criminali e gli artisti sono una cosa sola. Feroci, spietati, nudi, estremi, senza paura pronti a morire per cercare l’assoluto. Oggi lo so che è così

Oggi Aurelio Picca è un ragazzo di sessant’anni con gli occhi nerissimi dallo sguardo appuntito, i favoriti brizzolati e il fisico di uno che tira ancora di boxe e forse ha pure il suo allenatore personale. Ma quando inizia a parlare al bar Tazza d’Oro, nel cuore della Roma umbertina, fra marocchini che entrano ed escono dalla vicina Stazione Termini, e frotte di impiegati del Ministero delle Finanze in pausa caffé, sembra un uomo senza tempo. Da piccolo, a dieci anni, ha lavorato proprio qui, in questo bar, per una o due estati. “Una mia zia, sorella di mio nonno, allevatrice di cavalli del terzo marito e di cani del quarto, aveva un albergo in via Giolitti e abitava qui accanto, in via Calatafimi, dove c’erano i banchi dei pesciaioli, che arrivavano fino a via Goito ed erano tutti usurai, ‘Facciamolo lavorà, così se impara pure un po’ d’inglese’ disse a Sor Paolo che era amico suo. E io servivo ai banchi del mercato i clienti americani e imparavo un po’ di inglese…”.

 

Aurelio Picca, più che ricco, dice di essere abile, e confessa di saper riconoscere quanti carati ha un anello anche a occhio guardando il gioiello a due km di distanza. Porta il nome del nonno paterno, un patriarca del Partito repubblicano e un pacciardiano, organizzatore di incontri di boxe e titolare di un bar in Piazza Mazzini a Velletri “dove io facevo il cassiere e il barista, mentre mio zio telefonava dagli Stati Uniti per l’incontro tra Nino Benvenuti e Griffith. Per questo a 12 anni ho potuto assistere al match tra Benvenuti e Manzon al Palazzo dello Sport dell’Eur”, altro capitolo chiave di questa sua autobiografia deragliata nella mitolologia romana. Il nonno Aurelio aveva ereditato dal padre Arcangelo un terreno sul quale il figlio Primo, padre dello scrittore, aveva costruito delle case. “Mio padre era un leader. Ma è morto a 28 anni di stenosi mitralica, quando io avevo 21 mesi”, dice Aurelio Picca tirando fuori l’Iphone per mostrare le foto di un bellissimo giovanotto coi capelli neri al mare in giacca e cravatta con una ragazza bruna, sua madre. E si capisce cosa abbia generato, nell’orfano, l’inclinazione al romanzesco. “Iniziò a lavorare a sette anni, girando l’Agro Pontino in bicicletta per scambiare aceto e vino con polli e uova, suonava la fisarmonica a orecchio e cantava le canzoni romanesche in ottave a rima baciata”. Quando il padre muore, la madre si dà al commercio di preziosi e il figlio la segue, abituato sin da piccolo a andare in giro coi grandi.

 

Aurelio Picca, più che ricco, dice di essere abile, e confessa di saper riconoscere quanti carati ha un anello anche a occhio guardando il gioiello a due km di distanza

Di questa precoce educazione alla vita son piene le pagine dell’ultimo libro che ha per protagonista Roma, la capitale d’Italia coi suoi dialetti e i suoi poeti, la sua mitologia, la sua ferocia, il suo cinismo e i suoi criminali, dove per uno come lui che ha vissuto a Roma nei momenti salienti e li rivive sulla carta, la scena primaria si svolge fra i bar della Stazione, in mezzo ai banchi del mercato di via Montebello, fra gli attori improbabili del vicino Living Theatre che si appalesano come fantasmi a mezzogiorno coi capelli arruffati e le calzamaglie bicolore, o fra le stanze da letto delle “signorine” vicine di casa, che dormono fino alle 11 e danno 200 lire di mancia al ragazzino del bar che porta su il caffè, caricandoselo persino in auto per una gita a Castel Gandolfo, facendolo addormentare sulle ginocchia, mentre loro con la mano sinistra procacciano piacere al cliente guidatore…

 

I miei primi ricordi di Roma sono a 22 mesi al Quadraro” dice Picca. “Sai, io sono del ’60, ma mi sono inventato di essere del ‘57” dice con un lampo di eccitazione negli occhi, “perché quello è l’anno in cui è morto Malaparte”. E in questo vezzo della retrodatazione anagrafica la dimensione ludica sembra prevalere su quella estetica. “Amelia Rosselli diceva sempre che somigliavo a Tyrone Power. E infatti, quando una volta mi vide sua figlia Romina, rimase sorpresa. All’epoca erano i tempi buoni della Rcs. Io ero tutto magro, alto, giovane, spiccicato a Tyrone Power…poi è nata ‘sta storia di Malaparte, anche lui coi capelli neri lucidi di brillantina, ma io li porto così da sempre, e allora dico, ma famme mette che so’ nato nel ’57 quando lui è morto, e soprattutto quando Roma è finita, come diceva Sergio Citti”.

 

Roma invece nelle pagine di Aurelio Picca non è per niente finita. Vive invece di una sua vita feroce e sensuale, umile e spietata. Una vita fatti di incontri conturbanti, di tenerezze con ragazzine adolescenti, donne di esperienza, turiste svedesi, persino con aspiranti suore come Claudia, una delle figure più struggenti, l’infermiera che abita in un convento di monache, e dopo l’incontro con l’io narrante abbandona l’idea della vocazione, il così detto aspirantato, per farsi trascinare dall’amore e scomparire d’improvviso, svanendo come in un sogno, come l’apparizione di una dea greca. Perché accanto alla realtà in queste pagine si respira anche la mitologia, che è coome il soffio dei pensieri nascosti, del non detto, delle azioni mancate, delle atrocità più spietate.

 

Così per esempio la decapitazione della Gorgone da parte di Perseo, nipote del re Acrisio e figlio di Danae e Zeus, l’eroe antico che sfugge allo sguardo pietrificante di Medusa, mozzandole la testa e offrendola in dono a Atena, riaffiorano il rito sacrificale e l’antica usanza di mozzare la testa onde impedire la resurrezione di un corpo, con cui Picca cerca di spiegare il mistero della decapitata del lago Albano, alias Antonietta Longo, la donna di servizio innamorata del suo probabile omicida, abbandonata sulla riva del lago completamente nuda e ormai cadavere, con la testa mozzata e le ovaie recise, forse proprio per propiziarne il bagno di rigenerazione nell’acqua lacustre.

 

Roma invece nelle pagine di Aurelio Picca non è per niente finita. Vive invece di una sua vita feroce e sensuale, umile e spietata

D’altra parte la mitologia di una Roma feroce, popolata da artisti e criminali, e l’autobiografia deragliata di Aurelio Picca si reggono su un’umanità di derelitti, disperati e pieni di passione, assoluti e sublimi, matti e parassiti, come le tate o serve di famiglia, dal misterioso retroterra sentimentale che vivono con prole a carico in via Teulada, alle pendici di Monte Mario, o come i bestioni del mercato di via Goito, come i rapitori del signor Palombini, il mago del caffé dell’Eur, che venne sequestrato, riuscì a darsela a gambe, ma ebbe la sfortuna di suonare alla porta di un fedelissimo dei suoi rapitori, i quali per continuare la trattativa e estorcere miliardi decisero di farlo a pezzi e congelarne il cadavere, salvo tirarlo fuori per fotografarlo con un giornale in mano, il tempo necessario prima che si formasse un piccolo strato di brina sul viso… e come i criminali della banda Cimino, pronti a tutto pur di sfidare il mondo, e non soccombere da vinti. E’ una fantastica umanità di criminali, che Picca descrive con felicità nel suo italiano sfolgorante e poetico, incalzante e selvaggio, e però levigata come una pietra preziosa, puntuale come il Roger Dubois che porta al polso. Così, per esempio, quando Picca ricostruisce in presa diretta l’improvvisa rissa selvaggia che scoppia tra i criminali della banda Cimino e i due figli del gioielliere, che parcheggiano in via Lanciani, mentre la radio manda una canzone di Don Backy, escono solo quando è finita, vengono aggrediti, reagiscono prendendo a botte i ladri, che però iniziano a sparare a altezza d’uomo, e li finiscono come cani. I genitori dei due ragazzi sono a casa in cucina, sentono gli spari mentre preparano la cena, e dalla finestra assistono all’eccidio. Quando la sparatoria finisce, per dire con una sola immagine la loro disperazione, Picca ricorre a un dettaglio insignificante e potente al tempo stesso, il sugo rancido di pomodoro, che si fredda sui fornelli. Una sinestesia, come la brina sul volto cadaverico di Palombini, come la scomparsa di Claudia, che serve a fare vivere con la letteratura tutto quello che nella vita muore.

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