Bruno Zevi fotografato da Elisabetta Catalano. A destra alcune immagini della mostra “Gli architetti di Zevi” al Maxxi di Roma.

Terrazzo

La versione di Zevi

Michele Masneri

Una mostra al Maxxi di Roma celebra l’opera del grande architetto, che fu critico, polemista, politico e “personaggio”

Che personaggio, Bruno Zevi. “Larger than life”, paragonabile a un altro Bruno, Bruno Cortona, quello del “Sorpasso”. Tra Dino Risi e Mordecai Richler, viene da immaginarselo. Prima archistar italiana del Novecento, capace di muoversi disinvolto su tanti terreni – la progettazione, la critica, la politica, la scrittura polemica. Laureato a Harvard con Walter Gropius, presidente del Partito radicale, tenutario per anni di una acuminata rubrica sull’Espresso. Sposato a una formidabile signora, Tullia Calabi, musicista, intima a New York di Leonard Bernstein e Sinatra, e poi giornalista, corrispondente da Israele con cronache dal processo di Norimberga, e poi elegante presidente delle Comunità ebraiche italiane. A casa sua ospitava l’inviato di Kennedy Arthur Schlesinger e Nenni e Saragat, che studiavano l’agibilità delle sinistre italiane in consultazioni assai più chic e cosmopolite di quelle odierne.

 

Che storie, degne naturalmente di una serie per Netflix – e in fondo l’architettura potrebbe dare tanto al cinema, ma è un connubio poco utilizzato, mentre Frank Lloyd Wright, idolo di Zevi, era il protagonista della Fonte meravigliosa, uno dei pochi blockbuster squisitamente architettonici (con Gary Cooper nel ruolo di protagonista).

 

Zevi nasceva crociano, dunque l’importanza della storia anzi del “timing”, la distinzione tra prosa e poesia applicata al costruire – la stessa differenza che passa tra l’ingegnere e architetto (“è tutta qui. L’ingegnere misura e calcola in uno spazio e tempo ‘dato’, l’architetto vi immette l’arbitrio del proprio timing, e perciò crea”, scriveva nel suo “Architettura in nuce”, ora riedito da Quodlibet).

 

I suoi poeti erano “Michelangiolo” e Borromini, Richard Neutra e Terragni. Collezionava nemici in carne e ossa e di cemento (Marcello Piacentini, Paolo Portoghesi e Aldo Rossi, il Vittoriano e l’Eur, i parchi a tema).

 

Romano de Roma, Zevi aveva un nonno che aveva aperto i magazzini Mas all'Esquilino. Aveva fatto il Tasso, inteso come liceo (fondamentale più di Harvard, a Roma) e poi la facoltà di architettura, scelta negoziando col padre ingegnere (che aveva lavorato per il sindaco Nathan). Dopo le leggi razziali e la naja insieme al coetaneo Sottsass sul lago Maggiore (sceneggiatori, al lavoro), se ne va a Londra, prosegue per New York.

 

Il 21 febbraio del 1940 si imbarca sul piroscafo Conte di Savoia con un biglietto di sola andata. Nei documenti dell’immigrazione è registrato all’arrivo come “Alien 5213160”.

 

Ama i giornali e i libri: con Einaudi pubblica due classiconi, “Saper vedere l’architettura” (1948) e “Storia dell’architettura moderna” (1950) e infine le riviste “Metron” e poi “L’architettura cronache e storia”.

 

Tutta l’attività editoriale è visibile nella mostra appena inaugurata al Maxxi che celebra i 100 anni dalla nascita. Per Jean-Louis Cohen, professore alla New York University e all'Académie de France, "è stato il più grande divulgatore dell'architettura moderna mondiale, l'unico ad essere ascoltato sui giornali, con la sua rubrica ma anche in televisione, in Europa, Americhe e Asia". Oltre alle pubblicazioni per feticisti bibliofili ci sono da vedere i deliziosi manifesti elettorali col suo faccione (prima col Psi e poi coi Radicali) e i disegni originali e i modelli dei suoi architetti preferiti, da Franco Albini a Pier Luigi Nervi, a Renzo Piano. E poi tante lunghissime lettere (Zevi era un celebre grafomane, scriveva missive continue ad amici e parenti, disdegnando invece l’apparecchio telefonico).

 

L’asimmetria era il suo feticcio (gli piacevano le architetture fatte per esser viste di sbieco: la torre di Arnolfo di Cambio a Firenze, la chiesa di San Carlino alle Quattro fontane a Roma).

 

Considerava il simmetrico sospetto e piccolo-borghese, e coerentemente mal tollerava i parrucconi più accademici (oltre che fautori di grandi simmetrie vagamente cimiteriali come Philip Johnson a Aldo Rossi).

 

Fu sensibile alla modernità, e uno sfrenato amante del pop: pipa e papillon, nel 1976 lancia la prima emittente privata romana, “TeleRoma56”, fondata nella sua casa a via Nomentana, insieme allo psichiatra Guglielmo Arcieri che si prefiggeva di diffondere la tv per “sconfiggere la nevrosi”, e a Elsa De Giorgi, musa di Calvino. Un fantastico simmetrico (oops) di Berlusconi, ma prima. A Roma e non a Milano. I primi programmi vanno in onda dalla biblioteca, tipo messaggio alla nazione qualche anno più tardi del Cav. Tra i “clou” di quella avventura televisiva, una Emma Bonino che sviene in diretta durante uno dei tanti scioperi della fame, e il gruppo degli Indiani Metropolitani imbavagliati.

 

Tutto in quella villa che poi aveva conosciuto ben altri lustri: il mitico party nel 1955 per la prima visita in Italia di Frank Lloyd Wright (e lì, altro aneddoto poco noto: pare che pochi minuti prima dell’arrivo dell’esimio maestro Wright, Zevi chiama un suo collaboratore, il futuro celebre linguista Tullio De Mauro, che lavoricchiava per lui all’Istituto nazionale di urbanistica per mantenersi, “per una cosa in cui solo tu mi puoi aiutare”. De Mauro si precipita, immaginando di coadiuvare Zevi in qualche questione d’etichetta o d’intelletto, mentre il problema era costituito dalla toilette principale della villa, improvvisamente guastatasi, e da riparare in pochi minuti prima dell’arrivo di Wright.

 

Oggi il Maxxi celebra Zevi con questa mostra a cura di Pippo Ciorra e Jean-Louis Cohen aperta fino a settembre. Ne viene fuori uno spaccato dell'architettura ma soprattutto della società italiana del '900, anche per appassionati sul tema grande borghesia. La serata di inaugurazione, con tanti figli di architetti in mostra, professori universitari come Franco Purini e dottorande coi tacchetti, qualche principessa-designer in ballerine, e tutta la dynasty kennediana Zevi (e per una sera il quartiere Flaminio sembrava un po’ l’upper East Side, pure senza traffico, causa “ponte”, e partita della ‘maggica’).

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