Mario Vargas Llosa (foto LaPresse)

Vargas Llosa e l'elogio di Margaret Thatcher

Giulio Meotti

L’autobiografia di premio Nobel per la Letterature peruviano che alla “tribù della sinistra” preferì il liberalismo

Roma. Un giorno Mario Vargas Llosa chiese a un amico: “Conosci qualche liberale spagnolo?”. Di peronisti, di castristi, di chavisti, di sandinisti, di franchisti tanti, ma di liberali la cultura spagnola ne ha avuti pochi, pochissimi. Vargas Llosa ne è stato il colosso. La sua conversione risale a Heberto Padilla, il poeta incarcerato a Cuba. Vargas Llosa radunò i letterati a difesa del dissidente. Seguirono le accuse che Vargas Llosa “lavora per la Cia”, la fine dell’amicizia con Gabriel García Márquez (con un pugno in faccia a “Gabo”) e a lungo gli costò anche il Nobel. Vargas Llosa lo racconta ne “La llamada de la tribù”, l’autobiografia del Nobel della Letteratura.

 

“Scrissi a Fidel chiedendogli come Cuba potesse mettere gli omosessuali nei campi di concentramento. Fidel mi invitò. Passammo la notte a parlare, dodici ore, fu impressionante ma poco convincente”. La conversione politica ha avuto un impatto sulla sua reputazione letteraria. Lo scrittore peruviano Dante Castro Arrasco dirà che se Vargas Llosa fosse diventato presidente del Perù avrebbe sostituito lo stemma nazionale con una svastica.

 

Ha rivelato il New York Times pochi giorni fa che Gerald Martin, il biografo di García Márquez che ora sta lavorando a quella di Vargas Llosa, ritiene che l’anticomunismo sia stato il fattore più importante che ha a lungo impedito al romanziere di vincere il Nobel. “Artur Lundkvist, membro influente dell’Accademia svedese, preferiva gli scrittori socialisti, marxisti, comunisti, radicali e progressisti” e Vargas Llosa lo riceverà solo dopo che il comitato avrà cambiato volto negli anni Duemila. C’è dentro tanto, tantissimo in questa autobiografia, su tutto spicca l’elogio di Margaret Thatcher. “Quando arrivai in Inghilterra era un paese decadente, il cui coraggio era stato attenuato dal nazionalismo economico del Partito laburista. Thatcher ha risvegliato la Gran Bretagna. Erano tempi duri, mise fine alla sinecura dei sindacati, creando il libero mercato e difendendo la democrazia con convinzione mentre affrontava la Cina, l’Unione Sovietica, le dittature più crudeli della storia”. Anni decisivi per Vargas Llosa: “Inizia a leggere Hayek e Popper. Il contributo di Thatcher e Reagan alla cultura della libertà, che mise fine all’Unione Sovietica – la più grande sfida che la cultura democratica abbia mai affrontato – è una realtà mal ritratta da media influenzati da una campagna di sinistra”. “Non potevamo aspettarci altro da Vargas Llosa di una difesa ostinata del neoconservatorismo”, attacca Nuria Llull, politologa dell’Università di Barcellona. I suoi editori in Spagna, tra cui Juan Cruz, dicono che il Nobel peruviano è “il più vituperato tra gli scrittori viventi di lingua spagnola”. Il Nobel arrepentido.

 

Vargas Llosa sferza i populisti e il politicamente corretto, “il nemico della libertà che dobbiamo combattere in quanto distorsione della verità”. Infine, la censura che ora impazza fra i liberal: “Se si inizia a giudicare la letteratura in termini di morale ed etica, essa non verrebbe solo decimata, ma scomparirebbe”. Dateci il liberalismo, non Macondo.

  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.