Malintesi e malafede. Ecco l'America latina della sinistra onirica europea

Marco Archetti

In un libretto di Vargas Llosa la storia di un “ricamo utopico”

Anatomia di una malafede. “Sogno e realtà dell’America Latina” (33 pp., 10 euro), breve e accuratissimo saggio di Mario Vargas Llosa pubblicato per i tipi della casa editrice Liberilibri, è veloce come un colpo di sciabola a braccio teso e altrettanto efficace nel trafiggere, inchiodandoli alla propria contraddizione, tutti gli equivoci e le vacuità tipiche di chi ha preteso, nella storia del lungo rapporto tra Europa e America latina – nella storia del loro legame culturale inscindibile – di vedere quello che non c’era, e per scellerata conseguenza, in nome di questa cecità creativa (i più romantici parlerebbero di abbaglio), di straparlare e straparlare, partorendo mostri teorici di mitopoiesi immaginifiche, allegorie spacciate per tesi razionali e giganti di proiezioni assurde.

 

E’ la storia tristanzuola dell’arcinota sinistra latinoamericanista a priori, quella convinta che in quel continente presuntamente magico fosse praticabile anche la magia di un marxismo rural-ecumenico di matrice fanta-letteraria in grado di coniugare istanze diverse, culture diverse e storie diverse, non già viste come tali, ma al contrario, uniformate secondo i propri puerili e feroci criteri-pialla. E’ l’eterno frutto avvelenato di quel che Vargas Llosa chiama “ricamo utopico”, codice preponderante con cui la cultura occidentale si è rapportata al continente americano. “Questo ha tracciato il destino dell’America latina: l’essere percepita dagli europei con gli stessi occhi fantasticanti con la quale la videro i primi navigatori che misero piede sul suo suolo”. E infatti Cristoforo Colombo – giova ricordarlo, e Vargas Llosa lo ricorda – scoprì un continente nel quale si sforzò di vedere non quello che era davanti ai suoi occhi ma quell’Asia della seta e delle spezie che recava con sé nel proprio desiderio e nella propria immaginazione. Il libro è un atto d’accusa scritto con arguzia e levità, senza mai rancore ma soprattutto senza sconti verso la sinistra onirica europea, quella che a dispetto della realtà e delle sue sfumature, a dispetto della complessità e delle sue implicazioni, con tutti i suoi segnacoli e i suoi tintinnaboli ha cantato Messe la cui eco stenta tutt’oggi a scemare, e che vanta, tra i suoi più fanatici e biliari sacerdoti, una maggioranza di canuti ossessivi che inneggiano al Castro-madurismo brandendo tutti i testi rivelati del Realismo magico, nostalgici di ciò che hanno vissuto gli altri e incapaci di comprendere che letteratura e politica battono strade completamente diverse.

 

Diciamolo: è il Vargas Llosa più schiettamente popperiano quello che da queste righe ci invita a un rapporto razionale con i fenomeni sociali ed economici (lo sintetizza Nordio nell’introduzione: “Meno deliri e più sensatezza!”), al punto che la lista delle persone cui verrebbe voglia di regalare questo testo – salutare e squisita lezione sul rapporto tra cultura, politica e realtà – sarebbe infinita. Ma è infinito anche il novero dei guerrilleros da tastiera che imperversano sui social trombettando ricette infallibili solo per loro (spesso fallite in tutto il resto del mondo), infiniti i cinici travestiti da romantici che tifano per la dittatura che sconterà sempre qualcun altro e che viaggiano in direzione ostinata e contraria sì, ma rispetto al comune senso del decoro intellettuale.

 

Il libro di Mario Vargas Llosa è scritto con grande eleganza. Qua e là lampeggiano bagliori e le pagine sono impreziosite da alcune piccole intuizioni lessicali e da certi ritratti fulminei ed essenziali: si veda la parte su Régis Debray e il suo “¿Revolución en la Revolución?” testo di riferimento del catechismo delirante internazionale pubblicato nel 1967, o la stoccata allo scrittore Günter Grass, socialdemocratico in patria e barbudo in politica estera. La conclusione è esemplare: tutti coloro che, non tenendo conto delle infinite frammentarietà di un continente complessissimo e di una cultura che è tale proprio perché non ha né radici né carattere univoco, vogliano proiettare lì utopie fallite nel proprio, sono simili ai tanto vituperati colonizzatori. Che siano armati di immaginario letterario, poco cambia: spesso ha prodotto gli stessi danni di un esercito.

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