Il torero Antonio Ferrera durante una corrida in occasione della festa di San Isidro a Madrid (foto LaPresse)

Maledetta corrida. La più tragica delle arti celebra la vita

Alberto Mingardi

Oggi considerato uno spettacolo per sanguinari frustrati, l’ultimo relitto di secoli di machismo. Ma la tauromachia raccontata da Hemingway e da Jean Cau è il rito che serve a ricordarci la natura umana

“E se tutta la bellezza del mondo fosse ‘fascista’? In altri termini, e affinché mi si dia retta senza lanciare grida di raccapricci: e se ogni artista non avesse altro scopo che interrogare sul tema della morte la sua angosciosa e totale solitudine? E se l’opera d’arte fosse il talismano forgiato per far svanire la nostra unica certezza, quella di morire?”. L’arringa di Jean Cau è ben altro che questa manciata di parole, è una gragnola di pugni ben assestati in pancia al suo lettore, un lettore che è verosimilmente un amico, un compagno di conversazioni parigine, cittadino lui pure del centro storico della società letteraria. E che invariabilmente, oggi come negli anni Sessanta, al solo sentire la parola: corrida, curva le labbra in una smorfia, se va bene, di sufficienza. Il diario di un’estate taurina dello scrittore francese non può che cominciare così: non con una excusatio richiestagli, eccome, per la materia scabrosa cui si lega, ma col rifiuto di darne. La corrida non è solo l’oggetto di un’inchiesta culturale, l’esplorazione dell’Hispanidad da parte di un fine intellettuale francese, è “barbarie, rito, cerimonia”, arte tragica e crudele (il matador deve “matar bien”, uccidere come si deve), ma arte.

 

Ieri come oggi, la corrida è “di destra” agli occhi dei più. Alla Goyesca di Ronda, quest’anno, appoggiato al callejón c’era anche Santi Abascal, il capo di Vox, a cui l’amico Morante de la Puebla ha “dedicato” uno dei suoi tori, rivelatosi poi un animale stanco e dal quale era impossibile trarre soddisfazione alcuna, nonostante venisse dalla hacienda di Juan Pedro Domecq, a chi non s’impiccia di faccende taurine più noto per il pata negra. Nelle plaza sventolano bandiere spagnole e si assiepano ragazzini con quell’aria da chulo de barrio che è il marchio dei giovani follower di Abascal, sanbabilini d’Andalusia. Ma non ci sono solo loro. Belle ragazze nella loro divisa di belle ragazze, nonni col nipotino, aficionados senza soldi di carta nel portafogli ma attentissimi in piccionaia, la corrida è come l’opera, c’è chi ci va per farsi vedere, chi cerca un’occasione per mettersi in tiro, chi conosce a memoria ogni sibilo di Leporello.

 

“E se l’opera d’arte fosse il talismano forgiato per far svanire la nostra unica certezza, quella di morire?”, scrive Jean Cau

Prima di pensare che solo il franchismo poteva tenere in vita i giochi con i tori, varrebbe la pena ricordare che nelle giornate più peste della guerra civil il marketing ideologico di entrambe le fazioni cercava di mettere il suo marchio sulle fiesta. Nell’esercito popolare, esisteva persino una Brigada de los toreros. Quando Garcia Lorca viene ammazzato, sono con lui due compagni banderillero, gli acrobati che si gettano verso il toro per addobbarlo con le asticciole colorate, prima di lasciarlo solo col matador.

Pensare che la corrida sia di destra è una specie di inversione paradossale di quel “vado verso la vita” col quale Gabriele D’Annunzio incorniciò la sua passeggiata parlamentare. Significa credere che la sinistra è tutta umanità e zero individuo, tutta sociologia e niente storia, che non c’è simpatia possibile per le fatiche, gli sforzi, l’eroismo di un individuo solo davanti a un pericolo immane. Per Cau “amare i toros è un po’ come amare Dio malgrado la presenza del Male in questo mondo che Egli ha creato”, che vi sembrerà una frase enfatica quanto nessun’altra mai, ma forse no.

 

La corrida è una festa plebea evolutasi in spettacolo nazionale, è tutta un rito, comincia con la sfilata degli alguacil a cavallo, si conclude con una votazione nella quale la giuria popolare, il pubblico col suo panuelo blanco, propone ma la giuria di qualità, per così dire, dispone. E’ i colori di Spagna, è l’ocra della sabbia e il vermiglio del sangue, sono i “vestiti di luce” dei toreri, il rosso della muleta, il rosa e giallo del capote. E’ sempre uguale e sempre diversa. E’ una cosa talmente seria da essere l’unico appuntamento iberico a cominciare puntuale. E’ l’esaltazione ultima del coraggio di uno cantata da molti. E’ scandita da tempi certi, tre terzi ciascuno col suo canovaccio e i suoi comprimari (i picador nel primo, i banderillero nel secondo, il matador finalmente solo nel terzo), perfettamente istituzionalizzati, sempre uguali e ogni volta diversi. Termina con un sacrificio, quello del toro, che rimanda a data da destinarsi il sacrificio simmetrico del torero.

 

Che la corrida fosse una tragedia l’aveva già spiegato Hemingway, in quel formidabile manuale di tauromachia che è “Morte nel pomeriggio, tutt’oggi una lettura obbligata al primo ingresso in una plaza de toros. Da quelle pagine, apprenderete che state per assistere a uno spettacolo unico, che non c’è forza bruta che il torero possa esibire contro un nemico che pesa 600 chili e sfreccia come un proiettile, che lo deve “dominare con esperienza e scienza”, e se a ciò aggiunge la grazia il tutto diventa bello da vedere. I temi simbolici si rincorrono, distanti memorie dei giochi con i tori d’età pagana, ma soprattutto emerge, prepotente, unico, un dato di realtà. Su quel manto di sabbia, si fronteggiano un individuo sottile come una scultura di Giacometti, l’unica sua arma un drappo colorato nella mano, e una bestia immensa, che per sciabole ha due corna da paura e per peso, velocità, possanza sovrasta qualsiasi essere umano. Lo spettacolo è possibile, esiste, perché celebra “il primo incontro tra l’animale allo stato selvaggio e l’uomo a piedi”. Se il toro vantasse l’esperienza del torero, la corrida avrebbe una sola conclusione possibile. Invece, con la pratica, che poi nel grande torero diventa una sorta di allenamento alla psicologia dell’animale, la lucidità di riconoscere di che pasta è fatto non appena si aprono le danze, si ribalta un verdetto che la natura avrebbe scritto diversamente.

 

Questo reportage della stagione taurina 1960, quando Cau segue di plaza de toros in plaza de toros il matador Jaime Ostos (“da giugno a ottobre ho assistito in media a una corrida ogni due giorni”), avrà poca fortuna nel nostro paese. La passione per i tori, spiega Cau, è negata agli italiani perché “sono troppo commedianti e al colmo dell’esaltazione trovano sempre il modo di guardarsi allo specchio per correggere la loro posa”. La vanità e il cinismo, l’una e l’altro incrollabili tratti nazionali, rendono sgradita ai nostri occhi ogni celebrazione del coraggio che non sia manifestamente posticcia, un’altra sceneggiata da applaudire.

La nuova edizione di “Toro”, per i tipi di Iduna, è curata da Carlos D’Ercole, avvocato-scrittore che nella prefazione racconta la “corrida del secolo” (ventunesimo) tenutasi a Granada lo scorso giugno, quando José Tomás (foto sotto), il Manolete dei tempi nostri, taglia sei orecchie e un rabo, cioè la coda. Il punteggio, nelle corride, è fatto di queste cose qui, ricordi della bestia sottratti all’oblio, lanciati fra la folla alla fanciulla col vestito da cocktail o al moccioso in calzoni corti che non vedono l’ora di impiastricciarsi le mani di sangue, per l’ambito trofeo.

 

  

 

Pubblicato per la prima volta nel 1962, il libro di Cau è una replica a Un’estate pericolosa di Hemingway, sul quale pure è modellato.

Uscito a puntate due anni prima su Life, com’era avvenuto con “Il vecchio e il mare”, che aveva resuscitato la reputazione dell’autore, “Un’estate pericolosa” è il racconto della rivalità fra Luis Miguel Dominguín e il cognato Antonio Ordóñez. L’undicesimo capitolo, dedicato alla corrida mano a mano (due soli toreri anziché tre, tre tori ciascuno anziché due) che li vide opporsi a Malaga, contiene le più belle pagine taurine di sempre. Don Ernesto, al culmine della maturità, tocca con sapienza tutte le corde del suo strumento. Il lettore si sente lì, accanto a lui, mentre i duellanti giostrano i rispettivi animali, fino all’ultima stoccata di Ordóñez, quando il torero di Ronda deve “uccidere in modo assolutamente perfetto”, e lo fa. Ma se quelle pagine divine riscattano un intero libro, “Un’estate pericolosa” trabocca di parole inutili, testimonianza imperitura di come anche il più scabro degli scrittori, nel fingersi un esperto, finisca per lasciarsi inebriare dalla sua pedanteria.

 

La tragedia raccontata da Hemingway, in quel formidabile manuale di tauromachia che è “Morte nel pomeriggio”

Hemingway prende partito con slancio: semina dubbi sulle effettive virtù di Manolete, il dio della tauromachia immolatosi a Linares, il 29 agosto 1947, trafitto dal toro Islero mentre lui stesso lo sta uccidendo, non ama Dominguín (che proprio a Linares aveva raccolto l’eredità del titano abbattuto), esalta senza remore l’amato Ordóñez. Lo scrittore russo Jurij Nagibin, uno dei protagonisti della letteratura del disgelo kruscioviano, nel suo “L’ultima corrida di Hemingway” immagina che a un certo punto Papa s’accorga di essere stato giocato, comprenda che la rivalità fra cognati altro non era che uno specchio per le allodole, teatro a beneficio del pubblico, e si lasci tarantolare dall’idea che anche nella corrida, persino nella corrida, nulla è più verità. Che Hemingway si sia fatto fregare, e un po’ abbia fregato i suoi lettori, è anche un tema di Cau, è forse il tema di Cau, che ha l’ambizione dichiarata di non risparmiarci nemmeno una delle piccole grandi meschinità del mondo delle corride. Per D’Ercole, la sua è “una divertente esplorazione da insider del mondo del toreo” dove nulla è tralasciato. Il matador che va al casinò di Biarritz dev’essere protetto dalle insidie di un’attrice francese, e i suoi compagni si prestano all’opera, non senza un sorriso ma è un sorriso preoccupato: domani c’è da rischiare la pelle, non c’è tempo per altro. C’è Carmen (e poteva chiamarsi altrimenti?), la prostituta che dimenticherebbe di farsi pagare anche dall’ultimo mozo de espadasl’assistente del matador che lo segue da dietro il callejón e al momento opportuno gli porge, appunto, la spada – perché è il suo modo di partecipare a una magia. “I giorni di corrida compra dei fiori, si piazza a un posto di contro barrera che paga carissimo e getta i fiori a quei bei ragazzi che le piacciono tanto. Anche alle puttane parigine piacciono Sacha Distel e Belmondo, no? E perché Carmen non dovrebbe gettare il suo cuore ai toreros, assieme ai fiori?”.

 

Per carità, alcool e gioco d’azzardo, e soprattutto donne e sesso non mancano mai in Hemingway, figurarsi quando si piazza al fianco dei suoi semidei “vestiti di luce” e sfila con loro per le calli andaluse. Ma Hemingway offre sempre ai suoi lettori “una distrazione estetica nel modo, profondamente consapevole, in cui egli costruisce dei miti” (Harold Bloom). Prende dalla corrida molto più di quello che la corrida prenda da lui, è un mito che gli serve per costruire il proprio, di mito, per nutrirlo di un eroismo di seconda mano che mascheri un poco la sua spacconeria.

Per l’ex segretario di Sartre è tutto “vento e letteratura”: “Il machismo di Ernesto è condito di ketch-up, di marmellata di rabarbaro e mirtilli e di tutte quelle salse dolciastre e ripugnanti che gli americanotti versano su qualunque cosa per dare a qualunque cosa il sapore di qualunque cosa”.

 

La passione per i tori, spiega Cau, è negata agli italiani perché “sono troppo commedianti”. L’esaltazione del coraggio

Cau è un cronista curioso che gioca a proteggerci dal suo stesso lirismo (“Toros, toros, non voglio che mi induciate a cantare, non voglio mettere nella testa dei miei lettori immagini di paradiso perduto”), tipo un innamorato che, descrivendo la sua bella a un amico, perde il conto dei superlativi ma, in un raro momento di possesso di sé, se ne avvede e prova a moderarsi. E’ così che ci viene spiegato che nessuno vuole davvero battersi con un toro che sia una autentica furia, che i giornalisti che seguono le corride vendono aggettivi all’impresario più generoso, che le fiesta sono un business, e come un business vengono gestite. Il bello del libro di Cau è che alla fine, nulla di tutto ciò conta granché. I protagonisti sono umani, e che altro potrebbero essere?, lo spettacolo è divino.

 

José Ortega y Gasset sapeva di aver “fatto il mio dovere di intellettuale spagnolo” quando pensava “seriamente alle corride”. Agli uomini di cultura, negli anni Sessanta e ogni ancor di più, viene facile snobbare le fiestas. Così facendo dimenticano che hanno reso “felice la maggior parte degli spagnoli, hanno nutrito, con gioia e passione, le loro conversazioni (…) ispirato l’arte figurativa fin da Goya - nientemeno -, la poesia, la musica”. C’è una “empietà” in tutto questo, l’“empietà” dell’intellettuale rappreso in se stesso, senza curiosità del mondo. Di Juan Belmonte, forse il primo grande del toreo “moderno”, amico d’intellettuali e artisti, Ortega y Gasset dirà che era l’uomo più intelligente che avesse conosciuto.

 

Cau, per spiegare le corride, usa la categoria della bellezza. Non è né il primo né l’ultimo a giustapporle all’altra grande arte andalusa: il flamenco. “Sono davvero pazzo se vedo un’affinità tra lo svolgersi della cappa che guida lo slancio del toro (Oooo…) e logora lentamente fino a scioglierla in languore l’impetuosità della carica (…leee), e la nascita del canto che il cantaor strappa dal suo essere e libera fino all’ultimo soffio in un interminabile singhiozzo?”. La commozione della corrida sfuggirà sempre a chi si fissa sull’antagonismo fra toro e torero, come un duello fra rivali. Danza di sangue, ma sempre danza è e l’esito, previsto ma non inevitabile, il sacrificio del toro (che, in rari casi, può essere indultato, salvato per meriti sul campo, certificati dall’accordo di pubblico e giuria), non tradisce alcun odio dell’uomo per l’animale. I tori sono essenziali al matador, che lo sa, e l’incontro col matador è essenziale perché essi vengano al mondo: senza corride nessuno si darebbe la pena di crescerli allo stato brado, attività che richiede vaste estensioni di terra le quali troverebbero usi più profittevoli. In un “Monologo del toro”, Mario Vargas Llosa scrive che “per te, torero o aficionado, toreare è un’attività che si potrebbe pure sopprimere accettando di immergersi nella tristezza e nella nostalgia, ma per me la tauromachia è l’esclusiva ragione della nostra sopravvivenza. E’ per essa che noi siamo e che noi esistiamo. Se scomparisse, scompariremmo anche noi. O per caso esistono allevamenti di tori bravi in quei paesi dove non ci sono plaza de toros e toreri?”.

“Un’estate pericolosa” è il romanzo della rivalità fra Luis Miguel Dominguín e il cognato Ordóñez nell’estate del 1959

Nell’antica cerimonia del toreo, racconta lo scrittore peruviano, matador e toro sono “necessari l’uno per l’altro come gemelli siamesi”, uniti non da “un pezzo di carne” bensì da un rito che entrambi officiano “dall’alba più lontana della vita, quando non esisteva ancora la storia, solo il mito e la leggenda, quando ciò che si vive e ciò che si crede si confondevano nella vita come capiterà negli anni a venire solo nell’arte e nella poesia”.

 

A fine agosto, in una domenica andalusa, il grande rejonador, cioè torero a cavallo, Diego Ventura, dopo una stoccata perfetta, è saltato a terra e s’è accostato al toro ferito a morte, gli ha appoggiato una mano sulla fronte, se l’è tenuto vicino negli ultimi minuti con tutto il rispetto che si può mostrare innanzi alla morte. Capita di vedere delle cuadrilla che si accerchino all’animale trafitto, una mano al petto, il cappello nell’altra, per rendere omaggio alla forza e al coraggio.

L’indulto è una cosa rara e, come ricorda Matteo Nucci su “Uomini e tori”, “non ha alcun tipo di significato simbolico a priori”. Ma per chi si trova a vederne uno, con la sensibilità e gli occhi di oggi, rappresenta un momento particolare: non la vittoria del toro ma il riconoscimento della sua grandezza. Non basta che l’animale si sia battuto mettendoci tutto il suo istinto di sopravvivenza. Serve che abbia, in qualche modo, capito la danza, che si sia scoperto con un certo compiacimento compagno di ballo del suo carnefice. Sono i momenti, rari, in cui toro e torero sembrano tutt’uno, più amanti che nemici, ebbri l’uno e l’altro dell’ultimo olé strappato alla plaza, pronti l’uno e l’altro a alzare la testa appena la banda attacca un nuovo paso doble.

 

I giornalisti che seguono i toreri e vendono aggettivi all’impresario più generoso, le fiestas considerate un vero business

La banda e i paso doble sono parte della corrida, e ogni tanto si spererebbe che così non fosse, ce n’è di terribili e ce n’è di bande che attaccano solo per l’idolo di casa, che si astengono ostinatamente dal celebrare con un fiato di musica i più straordinari passi di un matador sgradito e poi ne omaggiano dei più mediocri, se compiuti dal loro beniamino. E nondimeno ci sono paso doble di lancinante bellezza, a partire all’onnipresente Suspiros de España: nella loro popolaresca complessità scandiscono perfettamente quel che nella plaza si vede e non si riesce a raccontare, l’incanto di una faena in cui il matador si avvita in movimenti sempre più rischiosi, misurando la distanza dalle corna del suo avversario in centimetri, la sfida lanciata alla bestia e al destino, la muleta che sfiora la sabbia e si rialza, dopo un attimo eterno, e nel mezzo un toro che carica.

Potete continuare a considerare la corrida una roba di destra, uno spettacolo per sanguinari frustrati, l’ultimo relitto di secoli di machismo. Ma vi sfugge che, coi suoi tre terzi dalla storia già scritta ma imprevedibile finché non finisce, la corrida è una metafora della vita. Sappiamo che non abbiamo altro tempo che il nostro, tanto vale combattere con onore e lealtà, cercando di renderci memorabili, per noi stessi e per chi ci guarda. E’ così che freghiamo la morte come possiamo, sapendo benissimo che ci attende, un giorno o l’altro, a las cinco de la tarde.

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