Il regista Xavier Dolan (foto LaPresse)

Claustrofobico e nevrotico. Il ritorno del cinema secondo Dolan

Gianmaria Tammaro

Vincitore alla 69esima edizione del Grand Prix del Festival di Cannes, "È solo la fine del mondo" è tratto da una piéce teatrale, e quasi non si nota. 

Ventisette anni e una carriera che farebbe invidia a qualsiasi regista del cinema mondiale. Xavier Dolan, origini canadesi, regista e attore, torna al cinema con È solo la fine del mondo (Lucky Red), film tratto dalla piéce di Jean-Luc Lagarce. E questo è il primo fatto interessante, perché che sia ispirato a un’opera teatrale quasi non si nota. Non c’è un’attenzione, come in altri film, per gli ambienti e per la posizione degli attori; qui Dolan gioca con i primi piani, brevissime panoramiche, e scorci degli occhi e delle bocche, dei protagonisti. Gli spazi si restringono e la storia è un dramma: scrittore di successo ritorna a casa dopo anni di latitanza, per passare un po’ di tempo insieme ai suoi familiari (per dirgli, in realtà, qualcosa di importante).


Xavier Dolan, Lea Seydoux, Nathalie Baye, Vincent Cassel, Gaspard Ulliel, Marion Cotillard a Cannes (foto LaPresse)


Gaspard Ulliel, Nathalie Baye, Marion Cotillard, Léa Seydoux e Vincent Cassel interpretano rispettivamente lo scrittore, la madre, la cognata, la sorella e il fratello. Dal taxi all’ingresso della casa, dalla sala da pranzo alla veranda, dallo scantinato dove dorme la sorella, fino a un’altra macchina, quella del fratello. Pochi spazi, tutti riconoscibili; ma sempre ristretti, schiacciati, claustrofobici. Pareti di gomma che si adattano ai dialoghi (che sono quattro, più o meno lunghi) e alle scene. Non c’è nessun gap, o salto temporale. I tempi sono scanditi dalla luce – che si fa più intensa, che sfuma, che si colora di arancione – e dal pranzo: antipasto, primo, dolce.

Il caldo è palpabile. I personaggi grondano sudore; i vestiti gli stanno addosso come una seconda pelle. Annaspa Ulliel, lo scrittore, e annaspa anche lo spettatore. La Seydoux mostra le gambe, si mette in pantaloncini, balla insieme alla madre. Una visione in un deserto di silenzi, di occhiatacce, di trucco pesante e volgare.

C’è un continuo rimandare, mettere in pausa, accennare; c’è il sospetto che ci sia qualcosa di non detto, qualcosa che aleggia nell’aria, che minaccia la tranquillità – già incerta – della famiglia, ma non si sa mai cosa sia con precisione. Lo immaginiamo, e immaginiamo il peggio. Solo in questo momento – quando, cioè, la palla passa al pubblico – le dimensioni improvvisamente si dilatano; e dalla casa immersa nel verde, ci spostiamo alla città, a un’altra vita, a quello che Louis – così si chiama il protagonista – è diventato dopo aver abbandonato sua madre e i suoi fratelli.

“Hai gli occhi di tuo padre, in questo momento”. Silenzio, faccia a faccia, tensione ed emozione palpitanti. Dolan si diverte a riempire ogni momento con la musica, e a lasciare lo spettatore sgomento. Per tutto il film, si creano schieramenti contrapposti: prima è la madre che difende Louis, poi è la sorella; quindi sono i due fratelli che si trovano insieme e parlano, e si capiscono – senza dire niente. Louis non riesce a spiegarsi e alla fine decide di chiamare la ritirata. E l’estroverso, quello diverso, “vivi ancora nel quartiere gay?”, diventa nuovamente la pecora nera. Quello da accusare. La scusa. Andava tutto bene finché: finché non sei riapparso, finché non ti sei fatto rivedere; finché non ci hai ricordato che là fuori c’è un altro mondo. Isterico, sfuggente, nevrotico. Bentornato, monsieur Dolan.

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