L’Ecumene, uno dei concetti utilizzati da Toynbee (1889-1975) nei suoi libri, in una mappa disegnata nel XV secolo

Toynbee e Corano

Luciano Pellicani
La teoria dell’intellettuale inglese sull’“aggressione culturale” è fondamentale per capire la riscossa islamista che percorre il mondo. Purtroppo è sottovalutata. Questa teoria non solo ci aiuta a capire il dramma del mondo islamico di fronte alla invadente civiltà occidentale; ci aiuta anche a capire il significato storico-culturale della Guerra fredda.

 

*Quelli pubblicati sono stralci di un saggio del sociologo Luciano Pellicani che appare nel nuovo libro collettaneo “Arnold J. Toynbee. Il mondo oltre le civiltà”, curato da Federico Leonardi (Università S. Raffaele di Milano) e Luca Maggioni (Università di Milano), in uscita per le Edizioni Unicopli.

 

 

 

 


 

Non può non destare la massima sorpresa constatare che, nella copiosa letteratura che si è accumulata negli ultimi venti anni sul fondamentalismo islamista, non c’è traccia alcuna della teoria dell’aggressione culturale elaborata da Arnold J. Toynbee (1889-1975) nell’ottavo volume del suo magnum opus. Persino Samuel Huntington – l’autore della famosa monografia sullo scontro fra le civiltà – l’ha ignorata. Eppure, proprio la teoria toynbiana dell’aggressione culturale è il più potente strumento a nostra disposizione per intendere le traumatiche conseguenze dell’imperialistica intrusione della civiltà occidentale nel Dar al-Islam. Toynbee parte dall’affermazione che quando due civiltà si incontrano, quella dotata di una superiore potenza radioattiva suscita nell’altra un mutamento radicale della sua attitudine mimetica, la quale si rivolge dall’interno verso l’esterno.

 

Accade così che la civiltà “inferiore” incomincia a imitare il modo di vita alieno, che prende a modello, sia perché ne avverte il fascino, sia perché è forza maggiore farlo per sfuggire alla sua umiliante condizione di sudditanza materiale e spirituale. Se tale processo mimetico si mette prontamente in moto, la società “inferiore” ha la possibilità di neutralizzare la minaccia che viene dall’esterno, anche se l’impresa, ovviamente, non si presenta punto facile, dal momento che, per sincronizzare il suo ritmo di sviluppo con quello della civiltà “superiore”, essa deve apportare modifiche rapide e radicali alla sua organizzazione interna e alle sue specifiche forme di vita. Il che significa che un’efficace “risposta” alla “sfida” esterna deve, per forza di cose, passare attraverso un cambiamento istituzionale paragonabile a una dolorosa operazione chirurgica. Esempio paradigmatico: la rivoluzione Meiji, grazie alla quale il Giappone riuscì, trapiantando nel suo organismo alcuni elementi culturali alieni, a scongiurare il pericolo di essere trasformato in una colonia delle potenze occidentali.

 

Non sempre, però, la “risposta” di una civiltà aggredita ha pieno successo. Può accadere che la civiltà investita dalle radiazioni culturali allogene si trovi in uno stato di disgregazione o, quanto meno, di decadenza; oppure, che le sue strutture cardiali si palesino di una rigidità tale da rendere impossibile una pronta ed efficace “risposta” adattiva a carattere autoplastico. In questo caso, l’aggressione culturale si trasforma in un vero e proprio dramma storico. Infatti, il primo impulso della società aggredita sarà quello di opporre una ostinata e astiosa resistenza alla intrusione della cultura allogena, che percepirà come un attentato ai suoi valori assiali e, di conseguenza, come uno snaturamento della sua identità spirituale. Contemporaneamente, l’impatto si risolverà in una diffrazione della cultura radioattiva, i cui elementi acquisteranno velocità e potere di penetrazione differenziati. Sicché, anziché un programmatico e armonico processo di acculturazione, si avrà una diffusione di frammenti culturali isolati, i cui effetti di lungo periodo non potranno essere adeguatamente controllati. 

 

Infatti, l’aggressione culturale procede secondo tre sinistre leggi. La prima delle quali dice che il potere di penetrazione di un elemento culturale è proporzionale al grado della sua futilità e superficialità. E’, questa, una legge dalle conseguenze particolarmente esiziali, poiché significa che la società aggredita, nell’impossibilità oggettiva di sottrarsi completamente all’influenza della cultura radioattiva, finirà per accettare quegli elementi che le sembreranno più facili da imitare o meno indesiderabili. Così il processo di acculturazione forzosa non solo produrrà il fenomeno della diffrazione, ma porterà anche a una selezione alla rovescia; conseguentemente, saranno gli elementi culturali di rango inferiore che si insinueranno nel corpo della società aggredita. In aggiunta – e questa è la seconda legge dell’aggressione culturale –, un elemento culturale che è stato innocuo o benefico nella società che lo ha generato, tende a produrre nuovi e devastanti effetti in una società nella quale si è alloggiato come une esotico e isolato intruso. Segue la terza legge, che dice che la caratteristica specifica del processo di radiazione-ricezione è che “una cosa tira l’altra” in quanto una cultura non è un aggregato, bensì un sistema, i cui elementi sono inter-relati. Sicché gli sforzi compiuti dalla società aggredita per impedire la penetrazione di elementi culturali non desiderati sono votati allo scacco. Una volta messa in moto, l’invasione culturale è inarrestabile e i tentativi degli aggrediti di frenarlo non avranno altro risultato che quello di rendere più straziante la cosa. 

 

Quando si fa palese che l’acculturazione è inevitabile e che le stesse capacità di autodeterminazione della società sottoposta alle radiazioni allogene vanno progressivamente scemando, nasce il partito “erodiano”, cioè il partito di coloro che assumono un atteggiamento opposto a quello degli “zeloti”: anziché rifiutare ostinatamente la cultura aliena, gli “erodiani” si fanno sostenitori di una intenzionale e programmata acculturazione. Essi, per impedire la colonizzazione imposta, si prodigano per stimolare una sorta di autocolonizzazione culturale. Sennonché, tale autocolonizzazione non può non apparire, allo sguardo fondamentalista degli “zeloti”, la strada maestra che conduce all’annientamento delle specificità spirituali del loro Macrocosmo. Di qui l’inevitabile lotta fra i riformatori e i tradizionalisti. Per i primi, la salvezza può essere conseguita solo andando alla scuola della civiltà “superiore” per carpirle il segreto della sua potenza; per i secondi, alla rovescia, tutto ciò che viene dall’esterno è come un veleno per le tradizionali forme di vita, sicché essi ritengono che non c’è che un modo per evitare la catastrofe culturale : espellere l’invasore e chiudere ermeticamente le frontiere, di modo che nulla e nessuno possa inquinare e corrompere il loro Macrocosmo saturo di sacro. 

 

L’analisi toynbiana dell’invasione culturale è chiaramente ideal-tipica, ma lascia intravedere il materiale empirico sul quale il grande storico inglese ha lavorato per elaborare il suo modello analitico. Ciò che egli descrive è soprattutto, anche se non esclusivamente, la penetrazione della cultura della moderna società industriale, centrata sul mercato, nei paesi del Terzo mondo e gli effetti sconvolgenti che essa ha prodotto. Una penetrazione che non si è limitata a fare scempio delle istituzioni, degli usi e dei valori che ha trovato nella sua marcia imperialista; essa ha anche straziato gli uomini, privandoli del loro habitat ancestrale e condannandoli a vivere in un mondo che si è progressivamente trasformato in una realtà estranea o, addirittura, ostie. In effetti, il capitalismo aggredendo le società poste al di fuori della sua area di sviluppo endogeno, ha sradicato milioni di esseri umani, trasformandoli in una immensa massa alienata. Questi milioni di individui – sparsi in tutte le aree culturali dove il sistema di mercato si è presentato come una aggressiva e distruttiva potenza esogena – costituiscono, ormai da generazioni e generazioni, il “proletariato esterno” della civiltà occidentale il cui tratto psicologico distintivo è il risentimento. 

 

Non può sorprendere, allora, constatare che, ancora oggi, due cose caratterizzano in maniera forte la condizione esistenziale dei popoli musulmani: il loro immenso senso di frustrazione e di collera e il fatto che essi vivono l’Occidente come una presenza al tempo stesso oppressiva e invadente. Oppressiva, per la sua schiacciante superiorità materiale; invadente, perché la Modernità costituisce una permanente minaccia per tradizionali forme di vita del Dar al-Islam. Queste, per i musulmani rigoristi, sono di origine divina e, come tali, non possono essere oggetto di analisi critica, né, tanto meno, possono essere modificate. La Sharia è la via che Dio, attraverso la Rivelazione profetica, ha aperto davanti agli uomini e da essa i fedeli non possono deviare senza commettere un peccato inescusabile. 

 

Stando così le cose, si capisce perché la prima mossa compiuta dall’“erodiano” Mustafa Kemal Atatürk fu l’abolizione del Califfato e la rigorosa separazione fra lo stato e l’islam. Senza tale mossa, la Turchia non avrebbe potuto aprirsi ai valori e alle istituzioni della civiltà moderna. E si capisce altresì la reazione fondamentalista degli “zeloti” dell’islam. Per essi, la Rivelazione del Rasul Allah investe la totalità dell’esistenza in tutte le sue manifestazioni. Il principio di separazione fra lo stato e la chiesa – che è alla base della civiltà occidentale – è inconcepibile, dal momento che, per l’islam, autorità politica e autorità religiosa sono strettamente connesse l’una all’altra. In aggiunta, nel Corano si trova espressa a chiare lettere l’idea che la libertà individuale è un insidioso meme entropico, che distrugge la coesione morale della Umma e che, di conseguenza, la pace sociale potrà essere istituita “solo se l’individuo accetterà di sacrificare il proprio individualismo”. Di qui l’ostinata resistenza opposta dalle società islamiche – con la sola eccezione della Turchia kemalista – alla Modernità. Una resistenza che Khomeini ha sintetizzato con la formula “l’islam o è politico o non è”. Tale sentenza sottolinea con forza e autorevolezza il fatto che esiste una incompatibilità di principio fra l’Islam e la Modernità. La Modernità – è opportuno sottolineare la cosa – è inscindibile dal processo di secolarizzazione, il quale ha posto fine al legame organico fra lo stato e la religione e ha trasformato quest’ultima in una faccenda privata. Ma una religione ridotta a una faccenda privata è precisamente ciò che gli “zeloti” non possono accettare poiché esso significherebbe l’abbandono della “Via di Allah”. Una prospettiva che li riempie di orrore e di odio. Di qui la loro chiamata rivoluzionaria alle armi avente un duplice obbiettivo: la purificazione del Dar al-Islam e l’annientamento dell’Occidente percepito e stigmatizzato come il Grande Satana. 

 

La teoria dell’aggressione culturale elaborata da Toynbee non solo ci aiuta a capire il dramma del mondo islamico di fronte alla invadente civiltà occidentale; ci aiuta anche a capire il significato storico-culturale della Guerra fredda. Ancora oggi, non pochi studiosi leggono la Rivoluzione bolscevica come una modernizzazione difensiva. Lo fanno poiché essi identificano il processo di modernizzazione con il processo di industrializzazione. Ma la Modernità non è solo la tecnologia e l’industria; la modernità è – anche e soprattutto – un assetto istituzionale centrato sulla libertà individuale, la laicità dello stato, la figura del cittadino titolare di un pacchetto di diritti, l’autonomia della società civile. 

 

Ebbene: quando i bolscevichi si impossessarono del potere con quel fortunato golpe passato alla storia con il nome di Rivoluzione d’Ottobre, scatenarono una guerra permanente contro le libertà borghesi, rasero al suolo la società civile sopprimendo il mercato ed elevarono il marxismo a ideologia obbligatoria di stato. Come vide prontamente Marcel Mauss – in un saggio tanto acuto quanto trascurato – il risultato fu una nuova versione del sistema bizantino, basato sul primato assoluto di Taxis – l’ordine pianificato – su Cosmos – l’ordine spontaneo – e sulla fusione del potere temporale e del potere spirituale. Tant’è che Nicolai Bucharin non avrebbe esitato a dichiarare che l’obiettivo della rivoluzione comunista era la “distruzione dell’individualismo” attraverso la creazione di quella che egli chiamava la “società civile statale”: un vero e proprio ossimoro concettuale, che esprimeva assai bene la vocazione anti-moderna e totalitaria del bolscevismo. 

 

A ciò si deve aggiungere che, essendo l’obiettivo della chiamata rivoluzionaria alle armi lanciata dai bolscevichi contro l’Occidente la fusione del “proletariato esterno” e del “proletariato interno” in un’unica armata planetaria, è stata cosa affatto logica la Guerra fredda. Questa non è stata solo il duello esistenziale fra due potenze – l’America e l’Unione sovietica – entrambe desiderose di conquistare l’egemonia planetaria; è stata anche – anzi, soprattutto – lo scontro fra due modelli di organizzazione sociale incompatibili: quello americano, animato dall’aspirazione a “essere in grande ciò che Atene era stata in piccolo”, e quello sovietico, rigorosamente “spartano”. 

 

E’ vero che i bolscevichi intendevano rubare all’Europa il segreto della sua arrogante potenza materiale – l’industria, l’apparato tecnologico e la scienza –, ma è altresì vero che essi si comportavano “verso l’Occidente quasi nello stesso modo in cui si comportavano gli slavofili”: detestavano la borghesia e il suo mondo, tutto centrato sul culto idolatrico di Mammona, e, conseguentemente, somministrarono al popolo russo quello che l’ex diplomatico sovietico Dmitrievskij definì “un tossico terribile: l’odio e la sfiducia per tutto ciò che sapeva di Occidente”. 

 

Tutto ciò induce a pensare che la Rivoluzione bolscevica non fu affatto animata dal desiderio di europeizzare la Russia, come hanno affermato, fra gli altri, Robert Service e Hélène Carrere d’Encosse. Essa non fu “erodiana”, bensì “zelota”.  La cosa non sfuggì a Toynbee, che vide con la consueta lucidità che la Rivoluzione bolscevica allontanava la Russia dall’Europa e che la versione leninista del marxismo era “un’arma anti-occidentale più efficace di qualsiasi arma materiale”. In effetti, grazie a essa, i bolscevichi riuscirono, elevando una compatta “cortina di ferro”, a impedire la penetrazione nella società russa dei valori dell’Occidente. E riuscirono anche a convertire alla loro Impresa rivoluzionaria – l’annientamento della “libertà borghese” bollata come un “privilegio corrotto e corruttore” che generava “uomini spiritualmente rovinati dal capitalismo” – una parte non piccola del “proletariato interno” della civiltà occidentale, nonché quegli intellettuali descritti da Hannah Arendt come nichilisti attivi mossi dall’ardente desiderio di “assistere alla rovina di una società completamente permeata dalla mentalità e dai principi morali della borghesia”. Furono questi ultimi che – determinati a “mettere davanti agli occhi il nulla dell’uomo moderno” – crearono una contro-cultura centrata sul mito della rivoluzione palingenetica e sulla demonizzazione del capitalismo, stigmatizzato come “un Moloch che pretendeva il mondo intero come vittima a lui spettante”. 

 

La Guerra fredda si è conclusa con la bancarotta planetaria del paradigma marxleninista. Ma ciò non ha significato la fine della guerra culturale fra l’Occidente e l’Oriente poiché sulla scena mondiale è apparso un movimento “zelota” – il fondamentalismo islamista – che ha proclamato, alto e forte, di essere determinato a surrogare il comunismo nella lotta contro l’Occidente mettendosi alla testa di “tutti i popoli diseredati della Terra”. Questo grandioso progetto fu espresso con la massima chiarezza nella lettera che Khomeini inviò a Gorbaciov. In essa, il carismatico leader della ierocrazia iraniana chiese al segretario del Pcus di riconoscere pubblicamente che il comunismo era ormai un “fossile storico” a motivo del fatto che, essendo privo di un principio spirituale trascendente, “aveva lo stesso problema che aveva trascinato l’Occidente in un vicolo cieco, nel nulla”. Spettava all’islam, pertanto, perseguire l’obiettivo di liberare i popoli che gemevano nella “prigione dell’Occidente e del Grande Satana”. Chiaramente, aveva colto nel segno il cancelliere tedesco Helmut Schmidt quando, nel 1979 – l’anno in cui Khomeini entrò in trionfo a Teheran –, fece questa acutissima osservazione: “Ora bisognerà studiare il Corano, anziché il Capitale”. 

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