"La Bohème" non è solo la storia di ragazzi “poveri ma belli”

Simonetta Sciandivasci
In scena al Teatro Regio di Torino uno dei capolavoro di Puccini. Mimì e l’illusione che i pessimi artisti facciano male solo all’arte e che l’ispirazione, allontanandoli dal mondo sensibile, li avvicini a quello intelligibile, rendendoli spiriti eletti.

Che non si muore per amore ce lo ha detto Lucio Battisti e che di amori bohémienne non è detto che si muoia, ma di fidanzati poeti a cui pesi la penna e che siano sprovvisti di riscaldamento sì, invece, ce lo ha detto Giacomo Puccini ne “La Bohème”. Sono passati 120 anni dalla prima dell’opera, al teatro Regio di Torino e mentre, da allora, Mimì è rimasta l’eroina dalla gelida manina, capostipite delle ragazze “soft as snow but warm inside” (“soffici come la neve ma calde dentro” come nella canzone dei My Bloody Valentine), pallida, passiva e assorta, l’amor suo Rodolfo si è sottratto alla bolla del suo tempo (seconda metà dell’800) ed è diventato il simbolo unico di una vocazione da aborrire poiché non diventa mestiere e quindi pane in tavola, esempio da impiegare per convincersi che il compagno massimamente desiderabile è un uomo di fatica e non d’intelletto, ma pure che per stare al mondo è necessario essere formiche e mai cicale, avere obiettivi e non sogni, idee e non fedi.

 

“Quando Mimì muore, tutti entrano nell’età adulta”, ha detto Alex Ollé, il regista che ha firmato “La Bohème” che da oggi e fino al 23 ottobre verrà proposta al pubblico del Teatro Regio di Torino (della cui annessa fondazione il sindaco Chiara Appendino è appena diventata presidente), spiegando la ragione per cui il suo allestimento racconta i giovani che oggi s’incontrano a Parigi e che non sono meno spiantati, poveri, costretti agli espedienti – con tutte le relativizzazioni del caso, naturalmente – di Rodolfo e i suoi amici. Mimì arriva in un tardo pomeriggio gelido come tanti altri. Schaunard il musicista, Marcello il pittore e Colline il filosofo sono appena riusciti a cacciare il padrone di casa (anzi: “è la morale offesa che vi scaccia!”) giunto a riscuotere l’affitto, dopo averlo fatto ubriacare ed avergli estorto la confessione di qualche scappatella e finendo, quindi, con l’accusarlo di essere uno spregiudicato dongiovanni, un “reprobo”.

 

Gabbata la tassa, tutti a cena con pochi quattrini racimolati per caso. Rodolfo, però, rimane in casa a finire di scrivere ed è mentre si danna per incarnare il personaggio dell’artista in cerca d’ispirazione (erano tempi in cui si credeva ancora che esistesse: le scuole di scrittura creativa non erano state inventate) che spunta Mimì. E tossisce. E rarefà l’aria e le cose, candida e appassionante com’è. Sparecchia la poesia e gli amici e i bagordi e gli espedienti della loro importanza e per Rodolfo, immediatamente, non esiste altro al mondo che lei. “Son io il poeta, ella la poesia”, dice alla crew, quando la presenta. I tempi allegri, però, finiscono in un baleno: i piccioncini litigano, lui geloso e lei inerme, lui protervo e lei signorinella pallida, lui robusto e lei malata, mai opposti, ma complementari e quindi sempre sudditi e non cittadini del loro amore.

 

Rodolfo è troppo impegnato a “camminare col sospetto accanto”, soffiare sul fuoco sebbene gli manchi il camino, dimostrare che fare il poeta sia sufficiente per esserlo, insomma a far parte di quella generazione zingaresca di giovani europei che Murger nel suo “ Scènes de la vie de bohème” (da cui il libretto dell’opera è tratto) aveva immortalato. Mimì, invece, non riesce a essere null’altro che una reazione: alla povertà con la tisi, alla poesia con accessori da musa e da vestale, all’amore egoista di Rodolfo con “pungenti amarezze”. Non paga l’amore tormentato, Mimì, né il mondo intorno irresponsabilmente bobo, né i fallimenti di Rodolfo (poiché non esistono: nessuno li riconosce): Mimì paga l’illusione che un poeta abbia un cuore nobile, che un giovane sia generoso, che un uomo sia “lettor” dei suoi desideri per renderla felice anziché per sedurla.

 

L’illusione che i pessimi artisti facciano male solo all’arte e che l’ispirazione, allontanandoli dal mondo sensibile, li avvicini a quello intelligibile, rendendoli spiriti eletti. Con “La Bohème” è l’arte a diventare adulta, tirare le somme e ammettere che nel suo nome si sono scagionati un sacco di stronzi. Al Regio di Torino, invece, Alex Ollé sembra intenzionato a far dire a Puccini che i giovani sono tornati poveri ma rimasti belli: speriamo di sbagliarci.

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