Venezia, Lav Diaz vincitore del Leone d'oro per il miglior film (foto LaPresse)

La premiazione alla Mostra del cinema di Venezia, tra melodrammi e bianco e nero

Mariarosa Mancuso
Leone d'oro a "The woman who left" del maestro filippino Lav Diaz, 226 minuti, quasi 4 ore. Una donna passa in carcere 30 anni - l’hanno incastrata. Quando esce va alla ricerca dei figli ormai grandi e del cattivo che le ha rovinato la vita.

Cosa fanno i cinefili quando il loro regista adorato vince il Leone d’oro alla Mostra di Venezia con un film che fino a ieri celebravano e consideravano degno del massimo premio? Scrivono che “The Woman Who Left” non è il film più bello del filippino. Uniti nella lotta sono il Corriere della Sera (Mereghetti: “Non è una delle sue uscite migliori”) e La Repubblica (Morreale: “Un’opera forse meno dirompente di altre”). Il venerato maestro ha concesso un po’ troppo al gusto del pubblico, e si sa che i capolavori invece devono martirizzare gli spettatori.

 

Forse vi sono sfuggiti i contorni di tanta piacionieria, li riassumiamo qui. “The Woman Who Left” dura 226 minuti, quasi 4 ore. Allo spettatore poco importa se per Lav Diaz equivale a una sveltina: altri suoi titoli ne durano 8, il che si configura come sequestro di persona. Una donna passa in carcere 30 anni - l’hanno incastrata. Quando esce va alla ricerca dei figli ormai grandi e del cattivo che le ha rovinato la vita.

 

Bell’inizio da melodramma - potrebbe essere una contessa di Montecristo, o una sfigata con voglia di vendetta - che il regista fa avanzare con passo lentissimo, quasi fermo sul posto. Gli interessa solo la composizione delle immagini, in un pastoso bianco e nero, e l’illuminazione drammatica. Bella, la vediamo anche noi, ma estetizzante fino al manierismo (siamo nelle Filippine, l’anno è il 1997: rapimenti, miseria, travestiti con l’epilessia). Ora sapete tutto, nel caso il film fosse programmato per i normali spettatori (ai critici che lo considerano un capolavoro bisognerebbe timbrare l’accredito all’uscita dalla sala, c’è il sospetto di forti sconti sulla lunghezza).

 

Il bianco e nero era la gran moda di quest’anno, assieme al formato quasi quadrato del cinema che fu. E’ in bianco e nero Paula Beer, premiata con il Marcello Mastroianni (attore o attrice emergente) per “Frantz” di François Ozon. Altro melodramma, più svelto però, sulle vittime della prima guerra mondiale. E’ in bianco e nero “Paradise” di Andrej Konchalovsky, Leone d’argento per la regia spartito con “La region selvaje” di Amat Escalante: l’accoppiamento meno giudizioso da quando a Cannes premiarono il bollito Jean-Luc Godard assieme al ragazzo prodigio Xavier Dolan. Un film sull’Olocausto ben scritto e ben recitato da una parte, dall’altra un delirio sciamanico con polipone multipenetrante. Tale sembrava, a vederlo sullo schermo con il beneficio di effetti speciali scarsetti: ma il regista ha detto no, non è un polipo (poi ha dimenticato di identificare più precisamente la bestia).

 

Premio per la sceneggiatura a “Jackie” di Pablo Larrain - il lavoro più grosso è toccato però all’attrice Natalie Portman. Coppa Volpi per il migliore attore all’argentino Oscar Martinez per “Il ciudadano ilustre”, acido e molto veritiero ritratto di scrittore premio Nobel che torna al paesello, i registi sono Mariano Cohn e Gaston Duprat. Coppa Volpi per la migliore attrice a Emma Stone, canterina e ballerina nello strepitoso “La La Land” (questo sì sarebbe stato un gran Leone d’oro). Leone d’argento a Tom Ford per “Animali Notturni”. Fin qui le scelte azzeccate. Dobbiamo al capriccio di Laurie Anderson - deve aver minacciato gli altri giurati: “ora vi faccio ascoltare le melodie composte dalla mia cagnetta adorata” - il premio speciale della giuria al cannibalismo di Ama Lily Amarpour, regista americana-iraniana di “The Bad Batch”. Era più felice la vedova Lou Reed della miracolata, che si è lasciata scappare qualche “shit” e qualche “fuck” pietosamente addolcito dall’interprete.

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