Emma Stone (foto LaPresse)

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Il toto-gusti dei giurati e quei film che sicuramente non vinceranno a Venezia

Mariarosa Mancuso
Tra gli sport para-festivalieri c’è il pettegolezzo sui titoli piaciuti a questo o quel giurato. Le indiscrezioni sui gusti del presidente si vendono ancora meglio. E se Sam Mendes vuole sbadigliare a morte, chi siamo noi per impedirglielo?

Tra gli sport para-festivalieri c’è il pettegolezzo sui titoli piaciuti a questo o quel giurato. Le indiscrezioni sui gusti del presidente si vendono ancora meglio. Dicono che a Sam Mendes non sia piaciuto “La La Land” di Damien Chazelle (il nostro preferito, parecchie lunghezze avanti agli altri, poi smettiamo di parlarne fino all’uscita italiana, il lontanissimo 26 gennaio, per non renderlo antipatico come certi primi della classe). Dicono che gli sia piaciuto invece “Spira Mirabilis” un documentario concettuale sull’immortalità – raggiunta solo da certe medusette, finora – che dura due ore e ne dimostra quattro (italiano, firmato dagli imitatori nostrani di Terrence Malick D’Anolfi & Parenti). Durata percepita pari alla durata reale di “The Woman Who Left” del filippino Lav Diaz. Ieri ha tramortito gli spettatori, oggi viene dato come sicuro vincitore di qualcosa (speriamo non la Coppa Volpi, l’attrice Charo Santos-Concio ha la dolente fissità cara ai cinefili).

 

I film americani raramente vincono ai festival (e “La La Land” prenderà un sacco di Oscar, con Emma Stone e Ryan Gosling e il compositore, e il coreografo e il costumista). Come diceva Totò, “De gustibus non est sputazzellam”: se Sam Mendes vuole sbadigliare a morte, chi siamo noi per impedirglielo? La Mostra di Venezia, come altri festival del cinema, può sopravvivere a Leoni d’oro che nessuno il giorno dopo ricorda. Non sarà la tragedia. Soltanto un duro colpo al cinema ben fatto che riempie le sale, e in tempi di crisi mica è poco (il nostro cocco è anche un film da vedere in sala).

 

Resta da spiegare perché il regista di “American Beauty” (primo film e primo Oscar nel 2000), di “Revolutionary Road”, di “Skyfall” che rilanciò con intelligenza l’agente segreto James Bond, debba premiare film tanto lontani dai suoi. Non è la prima volta che capita: nel 2015 a Cannes i fratelli Coen – campioni del cinema “fetta di torta” – premiarono “Dheepan” di Jacques Audiard, per attore una ex tigre tamil neorealisticamente presa dalla strada. Quentin Tarantino, non un campione del cinema impegnato, diede una Palma d’oro a “Bowling for Columbine” di Michael Moore (i soliti maligni dissero che avevano lo stesso produttore Harry Weinstein).

 

Un’ipotesi l’abbiamo. Funziona come nei sondaggi telefonici. L’intervistato si vergogna di dare certe risposte, teme di fare brutta figura. Per questo nessuno mai diceva di votare Berlusconi. Per questo le signore alla domanda “qual è la prima cosa che guardi in un uomo?” rispondono sempre “le mani”. Per questo le giurie scelgono titoli che fanno fare bella figura con i cinofili duri e puri, assegnano il patentino di intelligenza, certificano che non sei solo il regista di James Bond. Hai cuore, sensibilità, apertura al nuovo e al diverso. Mai e poi mai ti abbasseresti a premiare un film che vale il prezzo del biglietto.

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