Il lavoro è una truffa moralistica degli economisti moderni. Ma pure l'ozio

Alfonso Berardinelli
Dall’antichità al rinascimento, un mito inconcepibile. Lafargue cita i classici antichi, dice e ripete che lavorare è un vizio sociale, politico, economico: una truffa moralistica degli economisti moderni che rinnegano l’esaltazione dei piaceri che caratterizzava, da Rabelais a Diderot, o da Boccaccio a Lessing, la cultura borghese non ancora al potere.

"L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro”. Questo primo articolo della nostra virtuosa Costituzione sembra così bello, così giusto, così di sinistra. In realtà è il più nebuloso e retorico, perché sbandiera e applaude e accoglie con un cerimoniale squillo di tromba un mito dell’Occidente moderno che nell’antichità e fino alla cultura italiana del Rinascimento era inconcepibile. Nelle botteghe artistiche e artigiane di Firenze e Venezia il lavoro era una virtù e un valore non perché produceva per vendere e guadagnare, ma perché creava cose belle, esaltava e incrementava l’eccellenza e la dignità umana. Dunque lavoro come realizzazione di forme e conoscenza di verità, non lavoro come fatica, espiazione, accumulo di denaro. Del resto nell’idea greca e latina di “virtus”, di “aretè”, la virtù è un potere, una capacità di realizzare, un’abilità fondata sull’autocontrollo positivo delle energie, non autorepressione che cancella colpe e peccati.

 

Più che essere, come sembra, un omaggio socialisteggiante alle classi lavoratrici, la parola “lavoro” che apre la nostra Costituzione è ambigua e astratta, è un giuramento, una dichiarazione di fede nel lavoro produttivo inventato dal capitalismo moderno: accumulo di beni in quanto virtù etica luterana, un’etica ossessionata dal diavolo. E diabolica è la parola lavoro scritta su quella porta dell’inferno che è l’ingresso al campo di lavoro e di sterminio di Auschwitz: “Arbeit macht frei”, il lavoro rende liberi, un motto da indemoniati, un programma per la metodica distruzione dell’umano.
Le fabbriche che hanno permesso l’accumulo di capitale attraverso lo sfruttamento razionalizzato del lavoro di masse di uomini-merce, somigliavano in effetti all’inferno con le loro quattordici o dodici ore di lavoro giornaliero. Quando Paul Lafargue, marito di una figlia di Marx, Laura, pubblicò il suo famoso pamphlet intitolato “Il diritto all’ozio” (ma il suo termine è “paresse”, in francese pigrizia e non ozio), lo sfruttamento del lavoro operaio era più criminoso che virtuoso. L’ira sferzante di Lafargue è comunque più umanisticamente satirica che strettamente marxista. Ma la sua forza provocatoria è proprio in questo. Lafargue cita i classici antichi, dice e ripete che lavorare è un vizio sociale, politico, economico: una truffa moralistica degli economisti moderni che rinnegano l’esaltazione dei piaceri che caratterizzava, da Rabelais a Diderot, o da Boccaccio a Lessing, la cultura borghese non ancora al potere.

 

Già alla fine del Settecento, con la rivoluzione industriale inglese, il lavoro è propagandato come virtù che vieta il piacere: “Le officine moderne” scrive Lafargue “sono diventate delle case di correzione ideali dove si incarcerano le masse operaie e si condannano ai lavori forzati per 12 e 14 ore non solo gli uomini, ma le donne e i bambini”. Pian piano, secondo Lafargue, questa aberrazione ideologica che è l’esaltazione del lavoro è entrata anche nella testa del proletariato europeo e lo ha corrotto. Sono gli operai a chiedere il lavoro, non solo per stretta necessità, ma traviati dai letterati borghesi “che hanno intonato i loro canti nauseabondi in onore del dio Progresso, questo figlio primogenito del Lavoro”. A questo punto, Lafargue esalta la promessa liberatoria delle macchine che eviteranno in futuro agli operai la fatica produttiva, regalando loro il tempo libero del consumo piacevole. Strana ingenuità, dal momento che gli operai inglesi “luddisti” avevano già manifestato tutto il loro odio distruttivo per le macchine come mezzo di asservimento psicofisico e di sfruttamento economico.

 

Ma qui si aprirebbe la possibilità di una attualissima discussione che Armando Torno, curatore della recente edizione del pamphlet di Lafargue (La Vita Felice Edizioni, 121 pp., 10,50 euro) sembra trascurare. Oggi sempre di più, come già si annunciava nel secondo Ottocento, il capitalismo ha bisogno di consumatori più che di produttori. Ha bisogno di vendere un’enorme quantità di merci che promettono piacere e libertà, eliminazione della fatica, velocità, intrattenimento e comunicazione “creativa” attraverso protesi meccaniche. L’asservimento e il controllo sociale funzionano meglio se sono piacevoli, se vendono benessere e sicurezza. Non solo il lavoro, anche l’ozio e la pigrizia oggi sono sfruttati.

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