Alejandro Aravena nel 2015 (foto LaPresse)

Non solo titoli veltroniani e sottotitoli da Teatro Valle alla Biennale di Architettura 2016

Manuel Orazi
Per una volta la rappresentativa degli italiani è all’altezza della situazione: i progetti siciliani a piccola scala di Maria Giuseppina Grasso Cannizzo, l’ambiziosa installazione del trentino Renato Rizzi, le allegre scuole venete di Maria Alessandra Segantini e Carlo Cappai e il lavoro del gruppo di ricerca allestito da Renzo Piano sul Giambellino.

Venezia. Centinaia di profilati metallici pendono dal tetto come altrettante spade di Damocle nella sala d’ingresso dell’Arsenale, lastre di polistirolo tutte intorno a noi, frutto del riciclo di vecchie installazioni di Biennali passate. Fin da subito arriva forte e chiaro il messaggio edificante, il wishful thinking della Biennale di Alejandro Aravena, il quarantenne poliglotta che tanto fa sospirare giornaliste architette di mezzo mondo per il suo ciuffo ribelle, gli occhi chiari e la camicia bianca sempre fuori dai pantaloni. Fresco di premio Pritzker, il più giovane ad averlo mai ricevuto, è stato designato dal presidente Baratta molto prima, e ciò lo ha aiutato quindi a prendersi il centro della scena in un momento in cui le biennali di architettura pullulano come non mai (Chicago, Istanbul, Oslo). Dunque “Reporting from the front” ha scatenato da mesi il riflesso ideologico nell’ormai endemico zeitgeist bergogliano e nell’anno della Palma d’oro ritirata da Ken Loach col pugno chiuso.

 

L’architettura insomma viene accusata di inquinare, consumare, impoverire, distruggere e bisogna prendere provvedimenti urgenti perché fuori dai Giardini e dall’Arsenale c’è un nemico cattivo che tutto minaccia, il neoliberismo, ça va sans dire. Eppure Aravena viene dal Cile, la Svizzera del Sudamerica nonché primo paese ad applicare proprio le tanto deprecate teorie neoliberiste; certo è diventato noto col suo studio Elemental per i progetti a basso costo nelle periferie del suo paese, ma è anche l’autore di numerosi progetti sobriamente sofisticati. Infatti nella sezione da lui curata sono presentati progetti molto tradizionali e non solo engagé, che invece prevalgono nei padiglioni nazionali come ovviamente in quello tedesco: “Making heimat. Germany, arrival country”. Si tratta di progetti rigorosi (la torre dei belgi 51n4e a Tirana), pop (l’edificio Matrex che ne contiene un altro come in una matriosca del russo Boris Bernaskoni) o didattici come quello dei francesi LAN nella banlieue di Lormont, dove la didascalia recita “il miglioramento della qualità di periferie esistenti come mezzo per gestire rabbia e risentimento sociale”, ma non c’è traccia di autocostruzione o architettura informale e nemmeno di partecipazione, solo ottima architettura. E per una volta la rappresentativa – assai variegata – degli italiani è all’altezza della situazione: i progetti siciliani a piccola scala di Maria Giuseppina Grasso Cannizzo, l’ambiziosa installazione del trentino Renato Rizzi autore del teatro shakespeariano di Danzica, le allegre scuole venete di Maria Alessandra Segantini e Carlo Cappai visibili da una divertente passerella volante e l’immancabile lavoro del gruppo di ricerca allestito da Renzo Piano sul Giambellino, periferia milanese tanto cara a Giorgio Gaber.

 

In generale l’allestimento è molto chiaro e il mix gradevolissimo di progetti, plastici, installazioni senza troppo affollamento né tantomeno horror vacui. I padiglioni nazionali sono talmente tanti e sempre più numerosi che non è possibile darne conto se non limitandoci a quello italiano. Lo studio TAM designato dal ministero dei Beni Culturali si è dato un titolo veltroniano e un sottotitolo da teatro Valle: “Taking care. Progettare per il bene comune”. Vista però la storia recente del padiglione italiano, spesso disastrosa per gli esiti, hanno fatto un lavoro onesto facendo scelte precise e limitando così i danni di un tema assai confuso. I pochi progettisti scelti, molti i giovani e gli studi collettivi, sono stati riuniti in contenitori comuni, in uno spazio forse troppo grande per un padiglione nazionale. Molti progetti sono davvero naif come l’idea di andare nelle periferie con una biblioteca mobile (Bianciardi ci aveva provato inutilmente già negli anni Cinquanta a Grosseto). Wishful thinking e onanismo architettonico, ma allo studio TAM bisogna riconoscere la coerenza di essersi occupati da sempre di architettura sociale, lavorandoci in prima persona, tirandosi fuori dal cinismo di chi rivaluta l’informalità delle favelas con un bello spritz ghiacciato in mano. Meglio di certo il padiglione inglese che pur trasudando neomarxismo da tutte le parti organizza tavole di discussione con architetti molto leftist ma anche banchieri e developer per vedere cosa si può fare per abbassare gli affitti a Londra – il tema con cui il neosindaco londinese Sadiq Kahn ha vinto le elezioni, guarda caso. I rumors invece danno a sorpresa il padiglione americano dedicato alla rinascita di Detroit, pragmatico e visionario insieme, come probabile Leone d’oro, in ogni caso lo meriterebbe.