Una scena del film 1984 di Michael Redford

Il nuovo tabù di Lolita

Giuliano Ferrara
Sesso, fumo, salute, vaccini, obesità e giovincelli. Il mondo orwelliano e le mille folli e sconclusionate discussioni cui ci obbliga la correttezza politica. Chi vuole rimuovere i Nabokov, i Salinger, i Chaplin, i Balthus e i Pasolini – di Giuliano Ferrara

Ecco, mi sono domandato, ma quand’è che danneranno la memoria di Vladimir Nabokov e lo escluderanno con la sua Lolita dodicenne dai programmi di studio di tutte le giovani Holden (scuole letterarie) del mondo, per non fargli di peggio? Quand’è che liquideranno J. D. Salinger come un pedofilo, visto che ci provava con Oona O’Neill quando la figlia del grande drammaturgo, splendida ragazza, splendida donna, aveva quindici anni? Quand’è che fotteranno il padre nobile dei buoni sentimenti e dell’umorismo stellare del Novecento, Charlie Chaplin, Charlot, che a 54 anni la sposò, Oona, essendo lei diciottenne, ma cominciò a filarsela almeno un anno o due prima, fece con lei otto figli e con lei visse fino alla morte in Svizzera pieno d’amore e di ricordi e d’incensi? Quando metteranno a fuoco, finalmente, i musei che espongono i quadri di Balthus, che amava le modelle dagli otto ai sedici anni perché le trovava ambigue e, come dicevano i nostri nonni, perfino conturbanti? Un tipo, un insegnante di cui so nulla, è stato arrestato ieri l’altro dopo che una telecamera lo aveva ripreso nella sua scuola mentre baciava in luogo appartato un’alunna di quindici anni. La legge è chiara, la morale corrente è ancora più chiara della legge, le circostanze contano zero, il fatto è riprovevole e riprovato, c’è poco da discutere: risponda alla domanda, prego, e se fosse stata sua figlia?

 

Avevo ragione io. "La mala educación", il film di Almodóvar aveva accompagnato come un fumetto giapponese di quelli più duri la campagna internazionale del riflettore, spotlight, che ha devastato la chiesa cattolica in nome della lotta alla pedofilia dei preti, ed era il manifesto moraleggiante che riscattava la gay culture, di cui Pedro è stato tanta parte con il suo genio e la sua infinita malizia. La cultura del piagnisteo e della universale vittimizzazione ha trovato lo spazio del libero esame, della sola e vera fede, del peccato inespiabile, nella caccia al perverso, di molto sopravanzante la caccia al razzista, al segregazionista, al sionista, all’islamofobo, all’omofobo. Sposatevi come conigli, fate figli con l’aiuto dei robot, ma state lontani dalla vecchia, inaudita ma non inedita passione per le ragazze meno che diciottenni, per le lolite.

 


Sue Lyon in una scena di Lolita di Stanley Kubrick


 

O per i ragazzi, i loliti: Pasolini, contrario alla bonanza del matrimonio gay, ha scelto l’anno giusto per morire di santità invece che di galera o di gogna. Che età aveva la signora El Mahroug quando frequentava le cene di Berlusconi? Se ne conosceva lo stato di minore? Ma poi l’età conta fino a un certo punto, la malattia mortale di questi tempi, che tempi che fanno, è il sesso, sexual politics come diceva il titolo di un libro (1969) della grande femminista Kate Millett; ora anche su Trump e sui Clinton si giocherà una partita fatta di rivelazioni, donne trasformate in donnine, giovani stagiste della Casa Bianca che aspirano il sigaro sotto la scrivania dell’ufficio ovale, è un total bunga bunga ormai esteso anche alla “pruderie française” con il caso di Denis Baupin, una partita con il diavolo che parla di monasteri, di parrocchie, di luoghi del potere, di case private, di condanna pubblica, e come al solito l’Italia non è seconda a nessuno nelle grandi invenzioni: ultima fu il fascismo.

 

Guardate che non me ne importa niente, nothing personal, non ho fregole libertarie, ma a me dispiace che la cultura politica americana, niente male, sia finita a discutere delle toilette discriminatrici del North Carolina, che la fine della dialettica destra-sinistra sfoci nel conflitto cessuale tra ladies-gentlemen-transgender, nella gender-neutral society. Non voglio che la telecamera-spia si insinui nel posto dove faccio la pipì, per assicurare eguale trattamento a chi sceglie il genere che pare a lui o a lei. Nella camera che riprende il bacio dell’insegnante impazzito alla quindicenne, non so se consensuale, non so se tenero, non so se giocoso, non so niente e non voglio nemmeno sapere e non saprò mai, non vedo solo la condizione di controllo della legalità dell’amore, vedo un mondo orwelliano che riparte dal sesso o dal fumo o dalla salute o dai vaccini o dall’obesità o dalle mille sconclusionate discussioni cui ci obbliga la correttezza politica e anche la scorrettezza oltranzista e clownesca dei nuovi arrivati, dei parvenu nel fronte fino a ieri presidiato non dai Trump ma dai Robert Hughes e dai Roger Scruton (ignorance is not a virtue: per una volta Mr. Obamaaaaa l’ha detta giusta).

 


Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama (foto LaPresse)


 

Dieci anni fa un grande straussiano di Harvard, Harvey Mansfield, pubblicava un libro di cui il Foglio parlò a lungo che si intitolava “Manliness”, che non è masculinity ovvero machismo, è un’altra cosa, è una virtù classica “che non ha più occupazione abituale” , così scriveva Mansfield: fronteggiare il rischio, difendere il debole, caricarsi seriamente il gioco del potere che si ha, esercitarlo magari con una certa assertività. La manliness disoccupata è anche quella della Thatcher, della Bandaranaike, di Golda Meir, della Gandhi, della Merkel: può essere virtù di prudenza, di conflitto, di coraggio, di cavalleria, è gender-neutra, è donchisciottismo puro, viene dal maschio ma è della femmina quando occorra. Manliness è un/a disoccupato/a di lusso.

 

Avevo cominciato questa divagazione con Nabokov, et pour cause. Ho appena letto un suo testo cinico, disperato, ammirevole, forse sublime. E’ pubblicato per la prima volta in inglese dal Times Literary Supplement, per la cura di Luke Parker, uno studioso americano. Nabokov parla agli espatriati russi nel 1926, dopo che erano stati gettati nella “pattumiera della storia”. Li consola e si consola con una dose massiccia e incredibilmente bene argomentata di relativismo forsennato e di ottimismo. Aristocratico, scrittore nella pelle, Nabokov dice che la storia non esiste, è fatta di cicli, anzi di mode. Siamo all’indomani della Prima guerra mondiale e della Rivoluzione russa che lo ha costretto con un milione di compatrioti alla diaspora (suo padre quattro anni prima era stato assassinato a Berlino). Il dandy ventenne che finirà nella gloria letteraria come cittadino americano e poi in Svizzera, dove morirà nel 1977, stronca le “generalizzazioni”, la pretesa di capire passato e presente dal presente: solo il futuro, con compiacenza e curiosità, saprà giudicare.

 

Non c’è declino, non c’è decadenza, non c’è tramonto dell’occidente, chi siamo noi per giudicare, c’è solo un affastellarsi di mode, di giochi umani, di sport, di raffigurazioni mascherate e indecifrabili della realtà, e tutto è intarsiato di segni (altro che Roland Barthes), tutto è superficie riflettente che il mondo postero e postumo saprà guardare con la giusta commiserazione o con il senso di una preziosa originalità, senza peraltro capire, compito che spetterà ancora al mondo futuro del mondo futuro all’inseguimento dell’impossibile verità delle cose. E’ così frivolo, il giovane russo bianco espatriato, da assumere metafore dallo sport e dalla moda: le scandalose pettinature alla maschietta, Bubikopf o Pageboy haircut, c’erano anche ai tempi di Madame de Sévigné, nel Seicento.

 

“Non dovremmo calunniare il nostro tempo. E’ romantico al più alto grado, spiritualmente bello, e materialmente confortevole”. Per lui, ricco spodestato del patrimonio ma fiducioso, “in Russia il comunismo dei sempliciotti sarà rimpiazzato da qualcosa di più intelligente, e in un centinaio di anni Mr. Ulyanov (Lenin, ndr), quest’uomo eccezionalmente stupido, sarà ricordato solo dagli storici di professione”. Intanto, aggiunge, “assaporiamo il nostro tempo come pagani e come dèi: con le sue meravigliose macchine e i suoi megahotel, le cui rovine saranno apprezzate nel futuro come noi apprezziamo il Partenone, con le sue confortevoli poltrone di pelle, sconosciute ai nostri padri, con le sue precise investigazioni scientifiche, con la sua velocità moderata e il suo humour bonario; e, più importante ancora, con il suo quid di eternità che non manca mai lungo i secoli”. Se di qui a cent’anni, Gulag a parte, si salva il piccolo e bel monumento a Nabokov costruito a Montreux, sulle rive del lago, magari con i suoi libri migliori e forse addirittura compreso "Lolita", avrà avuto ragione lui. Ne dubito.

  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.