San Casciano dei Bagni

Venite nella Valle senza nome e cambierete idea sulla campagna senese

David Allegranti
La risposta toscana al libro di Mirko Volpi “Oceano padano”. Ma anche no

Tutta questa Padania sul Foglio aveva provocato un po’ di malinconia a noialtri amanti dell’immaginario collettivo toscano. Cioè, voi avrete pure Nosadello nel cuore, ma noi abbiamo San Casciano dei Bagni in qualche altro organo del corpo, mica pizza fichi e cassoeula, eh. Meno male dunque che è arrivato Antonio Leotti con il suo “Nella Valle senza nome” (Laterza, collana Contromano). Intendiamoci, il libro – la risposta toscana all’“Oceano padano” di Mirko Volpi, sempre Contromano Laterza – andrebbe comprato solo per la frase che spunta a pagina 53 con cristallino e rivendicato snobismo: “Se ci tenete a saperlo, detesto anche il Festival di Sanremo che, infatti, non ho mai visto”. A quel punto si sarebbe già meritato un posto sullo scaffale.

 

Ma volete mettere la goduria di tuffarvi nel flusso di coscienza dell’autore, che racconta la sua storia tragicomica di agricoltore nella Toscana meridionale, profonda, provinciale nel senso deteriore del termine, quella che piace tanto ai turisti che amano il tempo passato senza averci davvero vissuto, nel tempo passato, e men che meno in quella campagna dove un tempo, sì, era tutta campagna, ma non per la tranquillità e la pace dei sensi. Era tutta campagna perché non c’era un cazzo, “non c’era la differenziata, la spazzatura si buttava nella concimaia o dove capitava, plastica, metallo, rifiuti organici, scarpe vecchie e pentole sfondate andavano a finire nelle siepi vicino alla casa, e le fogne non esistevano”.

 

E volete mettere la fortuna di poter conoscere meglio questi benedetti e mitizzati contadini, rappresentati dal luogocomunismo come detentori della virtù e della fortuna – ah, la saggezza contadina!; ah, la frugalità contadina!; ah, il benessere contadino! – ma solo perché i topi di città non sanno che i contadini morivano presto, stroncati non dalla vecchiaia ma dalla fatica, e dopo aver lavorato da sfruttati per una vita (e chi poteva non gli pareva il vero di passare dall’altra parte della barricata, ciao core!). Leotti smitizza tutta questa retorica da armonia bucolica che circonda la campagna senese, roba da anglobeceri ricchi in vacanza nei loro hotel a cinque stelle brutti come casermoni e piscine termali piantati nel cuore di Toscana o da scappati di città in cerca di qualche sagra, inevitabilmente “tipica”, anche quando di tipico non ha nulla, come quella della Miseria a Colle Val d’Elsa, dove si mangia a buon mercato “ma fino a un certo punto”, con i piatti di plastica, i bicchieri di plastica “ribelli e traditori” e “si ingurgita il cibo mezzo freddo in un mare di casino”.

 

Insomma, cari aspiranti agricoltori che pensate che si tratti di una vocazione e non di un lavoro e avete visto troppe puntate di “Linea Verde” senza aver mai dato un’occhiata al libro contabile di un’azienda agricola, oppure cari turisti del fine settimana alle terme col bicchiere di rosso in mano, cari tutti che pensate alla campagna toscana come alla culla della serenità, leggete Leotti per apprezzare quella realistica, e dunque più sana di quella posticcia, sensazione da ultima provincia dell’impero che si ha vivendo appena fuori Siena, da dove le propaggini del potere giungono nei dintorni con tutt’altro che bucolico senso di libertà. “

Nella Valle senza nome – scrive Leotti – il potere comunista era rappresentato da una serie di vassalli, valvassori e valvassini che prendevano ordini dalla fantasmatica Federazione di Siena, un ente metafisico e leggendario per noi normali cittadini. Là si prendevano decisioni, là venivano stabiliti i nostri destini con un assolutismo degno di una monarchia. La politica veniva decretata nelle sfere celesti della Federazione e attuata dai fedeli amministratori, nessuno spiegava mai niente, il dialogo non era previsto, soprattutto nelle province sperdute come la nostra…”. Anche perché quelli della provincia senese non sono semplice contado, son proprio forestieri, sono “esteri” come direbbero i senesi nati sulle lastre, loro sì, autoctoni e veri, con quel cipiglio e quel nasino arricciato di chi sente sempre puzza di straniero. Figurarsi quando è pure senza nome.

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  • David Allegranti
  • David Allegranti, fiorentino, 1984. Al Foglio si occupa di politica. In redazione dal 2016. È diventato giornalista professionista al Corriere Fiorentino. Ha scritto per Vanity Fair e per Panorama. Ha lavorato in tv, a Gazebo (RaiTre) e La Gabbia (La7). Ha scritto cinque libri: Matteo Renzi, il rottamatore del Pd (2011, Vallecchi), The Boy (2014, Marsilio), Siena Brucia (2015, Laterza), Matteo Le Pen (2016, Fandango), Come si diventa leghisti (2019, Utet). Interista. Premio Ghinetti giovani 2012. Nel 2020 ha vinto il premio Biagio Agnes categoria Under 40. Su Twitter è @davidallegranti.