Kim Kardashian

Dunham e Kardashian, le due declinazioni del femminismo che fa fare soldi

Manuel Peruzzo
La lagna di Lena, che sostiene l’emancipazione del corpo imperfetto, e il bullismo di Kim, che invece ostenta la sua perfezione, sono due facce che parlano a due pubblici differenti. Ma che in entrambi i casi rendono tanto denaro

Se sei femminista batti le mani. La settimana scorsa la "polizia femminista" ha montato un caso sulla costumista Jenny Beavan, premio Oscar per Mad Max, la quale salendo sul palco è stata inquadrata accanto a una fila di uomini che, orrore, non la applaudiva. Se quella clip non fosse stata mandata in loop sui social, nella ferma convinzione che il successo delle donne non piace agli uomini, non ce ne saremmo accorti. Certo, tutti abbiamo notato che la Beavan fosse esplicitamente contro i parrucchieri, contro i truccatori, contro gli stilisti: si è presentata con una giacca in pelle (vegana, guai), una sciarpina, i capelli grigi e scompigliati. Sembrava appena scesa dalla moto, ed era quella l’intenzione, omaggiare i motociclisti di Mad Max; ma nessuno pretende si colgano i sottotesti, poi come li riempi i giornali? Il look anti-convenzionale ha fatto unire i puntini ai giornalisti in un un’altra direzione: i maschi non applaudono in sfregio alle donne che hanno il coraggio di non essere conformiste. Discorso molto più vendibile.

 

Il conformismo del corpo è al centro di un altro caso recente. È da qualche giorno che Lena Dunham non si dà pace per una gaffe: il primo caso nella storia in cui ci si lamenta per essere venuti bene in foto. Succede che Lena nota su Instagram una propria foto pubblicata sulla copertina di un magazine spagnolo in cui si vede diversa e, forse memore di una vecchia polemica di Jezebel in cui la polizia femminista le rinfacciava d’essersi fatta ritoccare la cellulite in barba a tante lotte estetiche (accuse in quel caso respinte difendendo Vogue), lascia un commento in cui lamenta l’abuso di fotoritocco, e che il suo corpo non è così, e che la sua circonferenza non è stata rispettata. Le rispondono che non c’è stata alcuna modifica sostanziale e lei si scusa. Chiunque abbia visto almeno un episodio di Girls, la serie tv di cui è autrice, sa che il suo corpo non è quello di Twiggy.

 

Se per Lena Dunham il femminismo è mostrar la cellulite, per Kim Kardashian no. La Kardashian ha completamente interiorizzato il paradigma della teoria dello sguardo proposto dalla studiosa Laura Mulvey, con l’uomo attivo nell’atto di guardare e la donna passiva che è oggetto dello sguardo; tanto da farne un business e modellare il suo brand sulla capacità di reggere lo sguardo sul proprio fondoschiena, fatturando. Più si spoglia più si sente libera. Più si spoglia e più la criticano. Un tweet di Bette Midler è esemplare: "Kim Kardashian oggi ha pubblicato un selfie in cui è nuda. Se vuole mostrarci una parte di lei che non conosciamo dovrebbe ingoiare la fotocamera". Seguono numerosi tweet in cui ci si divide tra fan di Kardashian (esistono anche quelli) e fan della Midler. Poi Kim ha messo fine a ogni discussione con un tweet in riferimento a un videogame di cui è protagonista: "Scusate se arrivo tardi, ero occupata a incassare un assegno da ottanta milioni e trasferirne 53 sul nostro conto in comune". In una mossa sola rivendica il denudarsi, pubblicizza il videogame, respinge i bigotti, copre il debito da 53 milioni di dollari del marito mitomane Kanye West. Il dito, la luna, il sedere di Kardashian che risana l’economia domestica. La salvezza di un matrimonio, ma che volete di più?

 

Il femminismo ha sostituito il sesso nel vendere i prodotti dell’industria culturale a tal punto che tutte vogliono lanciare modelli di emancipazione. La lagna di Lena Dunham e il bullismo di Kim Kardashian ne sono due facce che parlano a due pubblici differenti. La prima sostiene l’emancipazione del corpo imperfetto, frollo, sfatto; la seconda fotoritocca pure i muri alle sue spalle. Quando la prima difende le proprie foto unretouched, e la seconda difende il suo diritto a essere nuda e libera, fanno cose simili. Entrambe vendono il marchio del femminismo perché sanno che oggi è il modello egemone per far bella figura in società, e lo declinano per i rispettivi pubblici.

 

[**Video_box_2**]Fortunatamente Jenny Beavan non ne ha bisogno. Il suo look era un omaggio cinematografico, sì, ma era anche la scelta consapevole di una donna bassa, grassoccia e anziana che sa di non poter competere con Hollywood e di non averne neppure voglia. Così ha scelto di giocare in un altro campionato, quello dell’umorismo citazionista. Liberandosi dal dover essere o gnocca o lagna. E intervistata da Hollywood Reporter ci ha liberati tutti per davvero, dai discorsi sterili, dicendo che è normale non applaudire per ore a qualunque vincitore, lei non lo ha fatto, ci si stanca presto, e che mica le importava: aveva il suo premio. Ha vinto, lei.