Star Wars, all'origine del mito

Edoardo Rialti

“Tanto tempo fa, in una galassia lontana lontana…”. Oggi esce al cinema il settimo episodio di “Star Wars”. Così George Lucas ha creato un mondo che crediamo vero. “Queste cose non furono mai, ma sono sempre”, scriveva Sallustio. Così la storia di Luke, Leia, Solo e Darth Vader.

 

Queste cose non furono mai, ma sono sempre”, scriveva Sallustio dei miti. Eracle che lotta con l’Idra, Teseo che si avventura nel labirinto, Odino che si strappa un occhio per conoscere il futuro… Non si può dire certo che manchino gli eventi storici sensazionali, commoventi o terribili, solo negli ultimi quindici anni abbiamo assistito al crollo delle Torri e alle dimissioni di un Pontefice, ma i miti? E’ possibile assistere oggi alla nascita di un archetipo, come Odisseo che torna a casa, o Enea che fugge tra le fiamme? Certo che sì, a patto che la si chiami rinascita, visto che, come intuiva Borges, in fondo raccontiamo sempre le stesse storie (gli amanti divisi, la città assediata, il dio che muore e risorge). In effetti ne abbiamo uno sotto gli occhi, che si rinnova proprio in questi giorni col nuovo capitolo cinematografico di J. J. Abrams, a cui il giornalista Christ Taylor ha dedicato una ricerca che è anche una splendida carrellata della nostra storia recente, uno specchio nel quale è possibile scorgere di che materia sono fatti i nostri sogni: “Come Star Wars ha conquistato l’universo” (Multiplayer).

 

Han Solo, il Millenium Falcon, i Jedi, il Lato Oscuro, i titoli che scorrono nello spazio, la fanfara di John Williams, espressioni come “io sono tuo padre” e “usa la Forza, Luke” sono nel complesso uno di quei rari bagagli comuni capaci di unire, significativamente, almeno tre generazioni, e generare reazioni viscerali che sfiorano l’idolatria o una repulsione altrettanto radicale: ci sono corsi yoga che insegnano a respirare come Darth Vader, e mister Facebook in persona, Mark Zuckerberg, “era abbastanza nerd da organizzare una festa Star Wars per il suo Bar Mitzvah”. Christopher Hitchens diceva di saper citare anche lui le Sacre Scritture, ricordando il contrabbandiere Han Solo e la sua risposta alla proposta di guadagnare più soldi di quanti potesse immaginare: “Guarda che io posso immaginarne un bel po’”.

Certo, spiega Taylor, ancora oggi resiste l’immagine dell’appassionato un po’ sfigato, armato di felpa e pancetta, che snocciola a raffica dettagli o connessioni che neppure i registi ricordano. Ma non solo: “Fra le due trilogie – scrive – c’è stato un momento in cui ‘Star Wars’ ha vissuto ai margini fanatici della società. Ora non più. Pare che la società ci stia dicendo che ‘Star Wars’ aiuti addirittura a rimorchiare”. Sui social media circola persino l’hastag #Starwarsvirgin per studiare le reazioni dei pochi che ancora non abbiano preso parte a questo grande rito iniziatico collettivo.

 

Il punto di vista privilegiato che la storia recente ci consente, è appunto quello di poter sbirciare, per una volta, nella forgia di un archetipo – che spesso pare confondersi con lo stereotipo – e come possa balzare fuori dall’amalgama dei materiali più impensati, degli ingredienti più raffazzonati: scoprire come “un paio di pagine di un’incomprensibile fan fiction di Flash Gordon scarabocchiate a matita e poi abbandonate dal loro creatore, si sia trasformata d’incanto in un vasto universo che ha fruttato (e continua a fruttare) trentadue miliardi di dollari di merchandise in tutto il mondo”, e che comprende “circa 260 romanzi, dozzine di racconti, 180 videogiochi, più di 1.000 fumetti”.

 

Per non parlare dei siti web di appassionati, delle convention in costume, e delle citazioni. La domanda di Taylor è tanto semplice quanto radicale, di quelle che si vorrebbero fare a Dio: insomma, “come si costruisce un universo da zero?”. Certo, “con il senno di poi, tendiamo a esagerare quando esaminiamo la storia di qualcosa che ha avuto successo. Concepiamo miti sulla creazione della creazione di un mito. Lo stesso creatore, cercando una soluzione semplice alle quali deve continuamente rispondere, è spesso più che felice di contribuire a questo inganno”. Anche il padre di “Star Wars”, il regista George Lucas, ammette quanto fosse inconscio gran parte del calderone da cui risultò la pozione magica: “‘Star Wars’ si fonda su un contesto sociale, emotivo e politico molto, molto elaborato. Ma naturalmente nessuno ne era consapevole”.

Nemmeno lui, che pure aveva accusato la carenza di grandi narrazioni simboliche, negli anni Cinquanta e Sessanta: “Non c’era più molta mitologia nella nostra società”. E invece nella mente del giovane regista che ama il Marte di Burroughs e la Terra di Mezzo di Tolkien, le corse in automobile e i samurai, scatta un impensabile corto circuito narrativo, uno di quegli incipit che colgono con le difese abbassate, come “Pinocchio”, e che in una sola frase unisce passato e futuro, fantascienza e fantasy: “Tanto tempo fa, in una galassia lontana lontana…”.

 

Scelte che oggi ci paiono fondamentali spesso si rivelano incredibilmente fortuite: prima che arrivasse Harrison Ford, Han Solo doveva essere “un ragazzo barbuto ma di una bellezza virile, con indosso un pacchiano assortimento di abiti sgargianti: Coppola, in pratica”. Darth Vader era basso, ma un concept che lo rappresentava incombente fece decidere a Lucas di affidarne il ruolo al bodybuilder David Prowse. Che però aveva un accento troppo marcatamente Devonshire – lo avevano soprannominato Darth Farmer – per cui si ricorse alla tenebrosa bellezza del timbro di James Earl Jones. I primi a essere perplessi sul film erano gli interpreti stessi. Più che perplessi. “Ho riso per tutta la durata – confidò Mark Hamill-Luke Skywalker – pensavo continuamente che fossero commedie. Era assurdo avere un cagnolone gigante che pilota una nave spaziale, questo ragazzino che viene da una fattoria e che è pazzo per una principessa che non ha mai incontrato, e i robot che discutono di chi sia la colpa”.

 

Del resto “l’ottanta per cento della troupe del film originale pensava fosse un mucchio di robaccia e lo diceva a voce alta”. E Harrison Ford aveva un modo tutto suo di apportare modifiche ai dialoghi troppo legnosi: “Tu puoi anche scrivere questa merda, George, ma non la puoi recitare”. Eppure, questo folle mix di “spade di luce” da racconti sci-fi, allusioni a Nixon e al Vietnam, richiami misticheggianti a Castaneda, funzionò eccome. Il giovane che sogna l’avventura mentre guarda il tramonto su un remoto pianeta sabbioso, il vecchio saggio – che doveva augurare “Buon giorno!” come il Gandalf de “Lo Hobbit” – il cavaliere nero dal respiro roco e la spada rosso sangue, la principessa in pericolo, le infinite razze e i loro dialetti, il contrabbandiere dal cuore d’oro, un maestro che pare Kermit la rana, rugoso e ironico, ma ha la forza mentale per spostare un’astronave, i soldati imperiali le cui anonime, meccaniche celate ricordano i cavalieri teutonici dell’“Alexander Nevskij”, l’Imperatore malvagio che precipita in una voragine come Gollum, scaraventato dal suo fedele pupillo che si riscopre padre capace di amare e morire… davvero raccontiamo sempre le stesse storie. E continuiamo ad amarle.

 

Complice fu anche la grande attrattiva per le culture alternative esplorate e impugnate dalle generazioni della Contestazione: “L’uscita di ‘Star Wars’ coincise con livelli record di uso di marijuana tra gli studenti delle scuole superiori… quasi ogni recensione descriveva il film come una ‘allegra gita di piacere’ o un ‘trionfo visivo’: un’esca garantita per chi voleva ammazzare un paio d’ore in un’estate delirante e psichedelica”. E quello che in un corto sperimentale di Arthur Lipsett era pressoché un accenno – “molta gente ritiene che, attraverso la contemplazione della natura e la comunicazione con altri esseri viventi, si possa avvertire una specie di forza, o qualcosa del genere, dietro la maschera apparente che abbiamo davanti, e questo qualcosa si chiama Dio” – diventò nientemeno che la Forza. Che nel 1977, come rispondendo a una segreta sorgente di attesa, “esplose nella testa di milioni di persone, e di conseguenza Francis Ford Coppola propose a Lucas di fondare veramente una nuova religione, usando la Forza come testo sacro. Lucas temette per la sanità mentale del suo amico. Anche se Coppola era solito fare dell’ironia, non era un’idea insolita: lo scrittore di fantascienza L. Ron Hubbard aveva già passato tre decenni a sviluppare la propria religione, la chiesa di Scientology. Lucas aveva più seguaci di quanti Hubbard possa averne mai sognati. Se avesse lasciato fondare al carismatico Coppola una chiesa di Force-ology, senza dubbio vivremmo in un mondo diverso”.

 


Eppure lo stesso Lucas talvolta indulge in qualche battuta divineggiante: “Io sono il padre, e questo è il mio lavoro. Poi abbiamo il gruppo che concede i diritti… io lo chiamo il figlio… poi abbiamo il terzo gruppo, lo spirito santo, che è composto dai blogger e dai fan”. Che a loro volta, come nelle migliori confessioni religiose, possono essere moderati o intransigenti lefebvriani che sfilano in una sorta di messa tridentina. Come certi cosplayer che insultano gli altri per i costumi poco dettagliati (“Questi stronzi non lo fanno per divertirsi. Lo fanno per l’accuratezza canonica”).

 

La prima trilogia di Lucas (gli episodi IV, V e VI) incassò la stupefatta ammirazione di uno dei suoi eroi, l’antropologo ottantenne Joseph Campbell – “Pensavo che la vera arte si fosse esaurita con Picasso, Joyce e Mann. Ora so che non è così” – e stroncature come l’indimenticabile pugnalata del New York Times – “Personale come il biglietto di auguri di Natale di una banca”.

 

[**Video_box_2**]Vent’anni dopo, la Forza prese a scorrere potente sul web: “Il primo trailer de ‘La minaccia fantasma’ esordì online e fu scaricato dieci milioni di volte. Potrebbe sembrare poca cosa nell’èra di YouTube, ma nel 1998, quando meno di un terzo degli americani era online, quasi tutti con lentissime connessioni a 56K, fu stupefacente. Il download di un video poteva richiedere ore”. Le allusioni stavolta si concentravano su Bush: “Se non sei con me, sei mio nemico”, afferma il giovane Darth Vader e “a pochi spettatori adulti in quel momento sarebbe sfuggito il riferimento alla frase di Bush nel suo discorso al Congresso del 20 settembre 2001: o siete con noi o siete con i terroristi”.

 

C’era chi, cresciuto col mito, rimase comunque deluso dai nuovi episodi – “Nel 2005, una band che si chiamava Hot Waffles scrisse una canzone intitolata ‘George Lucas ha violentato la nostra infanzia’. Tre anni più tardi, i creatori di South Park andarono giù ancora più pesante in un episodio in cui Lucas viene mostrato nell’atto di violentare uno stormtrooper. Non c’è cattiveria all’inferno pari a quella di un fan di Star Wars respinto” – e chi, come l’attrice Carrie Fisher, scrisse le proprie ferite al suo stesso personaggio, la principessa Leia (Leila nella versione italiana): “Stiamo mettendo in scena la nostra personale interpretazione di Dorian Gray. Tu: calma, sicura e altezzosa, condannata per sempre all’invidiabile prigione dell’avventura intergalattica. Io: che combatto sempre di più contro un disturbo da stress post galattico, che porto le tue cicatrici, e ingrigisco i tuoi capelli eternamente neri e ridicoli”.

 

Lucas non ha fondato una religione – ci hanno pensato altri con la Jedi Church – ma il suo racconto, amato o detestato, ha aggiunto qualcosa che il mondo lo ha cambiato lo stesso, se persino la Casa Bianca di Obama – grande fan della saga – ha ufficialmente detto di no a una petizione di 34.000 firmatari che chiedevano la costruzione di una Morte Nera: “Quest’Amministrazione non supporta la distruzione dei pianeti” e se un fan vestito da Vader ha dovuto spiegare alle autorità turche che non c’era nulla di cui preoccuparsi. Ma questi episodi, piccoli e grandi, i tributi o i dileggi, compongono un mosaico infinitamente più grande delle singole parti. Quando una storia, un’immagine viene così ripetuta, variata, ripresa, assume una vita tutta sua. Anche le parodie contribuiscono a ispessirne il peso. Achille ormai ha uno spessore per cui, a una sua scadente resa cinematografica, si può sentire qualcuno sbottare ‘Lui non l’avrebbe mai detto’, come se fosse vero al pari di Cesare o Napoleone. Lucas ce l’ha fatta, c’è più mitologia, adesso. “Sarei davvero felice se un giorno, quando avrò 93 anni, colonizzassero Marte, e se il leader della prima colonia dicesse: ‘L’ho fatto perché speravo che ci fosse un Wookie lassù’”, confidò durante un’intervista.

 

“Il 3 novembre 2007 fu il giorno in cui la musica di Star Wars fu suonata nello spazio per la prima volta, trent’anni dopo aver entusiasmato il pubblico sul pianeta Terra. Era una sveglia trasmessa dalla Nasa per l’equipaggio della missione Shuttle Sts-120, dopo dodici giorni a bordo della Stazione spaziale internazionale. In particolare, era diretta allo specialista di missione Scott Parazynski. ‘Questo sì che è un bel modo di svegliarsi’, disse Parazynski al centro di controllo missione. Poi, per suo figlio, fece la prima imitazione conosciuta di Darth Vader fuori del pianeta Terra. ‘Luke, sono tuo padre’, disse. ‘Usa la Forza, Luke’”. “Girano storie su quel che successe”, accenna una voce femminile nel trailer del nuovo capitolo di J. J. Abrams. Un Han Solo-Harrison Ford ingrigito, la cui sola comparsa ha fatto impazzire le fan reactions riprese su YouTube, annuisce misterioso e solenne. “E’ vero, tutto vero. Il lato oscuro, i jedi. Sono reali”. C’è chi l’ha sempre saputo, lo ha sempre sentito. Un momento metanarrativo che, con astuzia e sincera commozione, ripercorre e omaggia trent’anni della nostra storia, i sogni della nostra galassia.

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