Il bello delle Guerre stellari
Sunstein spiega il successo senza precedenti della saga nata nel 1977 grazie all’economia comportamentale. Bene. Ma i film di Lucas sono prima di tutto un’epica jeffersoniana: ribellioni, autogoverno, repubblicanesimo. La trilogia originale, pur volendo parlare agli americani di quel periodo dei fatti loro, rimanda a tematiche universali.
Perché e come “Guerre stellari” ha avuto un successo universale? Quando il primo film della saga uscì nel 1977, era unanimemente considerato un bidone quasi certo: nella prima settimana venne proiettato in appena 32 sale in tutti gli Stati Uniti, e lo stesso regista George Lucas, per non assistere al flop, si rifugiò in vacanza alle Hawaii. Invece la storia ci racconta come andò a finire: oggi “Star Wars” (nel frattempo ribattezzato “A New Hope”) è la seconda pellicola più vista di tutti i tempi dopo “Via col vento”, e anche gli altri film della serie si collocano in posizioni record. Persino i meno riusciti (“The Phantom Menace” del 1999 e “The Force Awakens” del 2015) sono stati dei blockbuster – in questo caso annunciati – e non hanno in alcun modo raffreddato l’entusiasmo dei fan.
Per comprendere le ragioni di un boom tanto inatteso quanto deflagrante, bisogna utilizzare strumenti non convenzionali: è quello che fa Cass Sunstein nel suo “The World According to Star Wars” (Dey Street Books). Il giurista americano, già capo dell’Office of Information and Regulatory Affairs presso la Casa Bianca di Barack Obama, mette in campo tutto l’armamentario “behavioral” per leggere in trasparenza le motivazioni di un fenomeno che attraversa generazioni e paesi. Ecco allora interpretare sia la trama dei sette episodi già usciti, sia le reazioni che essi hanno generato nel pubblico alla luce degli “effetti di rete” (poiché tutti lo hanno visto, anch’io lo guardo per non esserne escluso) e degli “effetti a cascata” (tutti ne parlano, e bene, quindi vale la pena guardarlo). Se si deve fare una critica a Sunstein è proprio quella di spingersi troppo oltre: interpretando “Guerre stellari” e il suo impatto sociale come “una serie di casi studio di distorsioni comportamentali”. Tant’è che il Washington Post, nella corrosiva recensione a firma di Carlos Lozada, azzarda che “questo non è il mondo secondo ‘Star Wars’. E’ ‘Star Wars’ secondo il mondo di Cass Sunstein”.
Pur facendo la tara alla tentazione nella quale egli indulge dichiaratamente, il volume offre una riflessione mai banale e ricca di spunti e provocazioni. La domanda che Sunstein si pone è la seguente: è stata solo fortuna, merito della tempistica perfetta, oppure era troppo bello per non guardarlo? La risposta: tutte e tre le cose. Il primo film è uscito in una fase della storia americana in cui il paese aveva davvero bisogno di “una nuova speranza”: non è un mistero che, quando Lucas scriveva dell’Impero, aveva in mente il modello dell’Amministrazione Nixon. Ma ciò non basta a spiegare una popolarità che trascende e travalica la Guerra fredda, il Vietnam e il Watergate: la verità è che la trilogia originale, pur volendo parlare agli americani di quel periodo dei fatti loro, rimanda a tematiche universali, che vi trovano una trattazione originale e affascinante, poi sviluppata e arricchita dai prequel e (speriamo) dai sequel e dagli spin-off in gestazione. Questioni come il rapporto tra padre e figlio (“I am your father” è forse la battuta più riuscita della storia del cinema), la libertà di scelta e il libero arbitrio (“devi scegliere”) e l’equilibrio delicato dei sistemi politici.
E’ in particolare su quest’ultimo aspetto che si vede il background di Sunstein: studioso di costituzioni, egli mostra come la scelta di “Star Wars” tra Repubblica e Impero non sia “piatta” ma, all’opposto, venga adeguatamente problematizzata. Il colpo di stato di Palpatine riesce non solo per le sue abili strategie, ma soprattutto perché il Senato si perde in mille discussioni inutili ed è incapace di dare una risposta ai moti separatisti orchestrati dal Conte Dooku. Le cose precipitano proprio per l’apatia dei senatori i quali, incapaci di trovare una soluzione, approvano la creazione di un esercito della repubblica e soprattutto assegnano poteri di emergenza a Palpatine. E’ solo questione di tempo perché il neo Imperatore, che finora ha nascosto la sua adesione al Lato Oscuro, adotti un decreto per la dissoluzione del Senato stesso. “L’imperatore Palpatine – scrive Sunstein – sale al potere solo grazie agli infiniti, vuoti litigi dei parlamentari repubblicani. Si assicura l’autorità come diretta conseguenza di quei litigi”. S’innesta qui il geniale paradosso di “Star Wars”: la salvezza della Repubblica dipende da un pugno di ribelli, sostenuti dai cavalieri Jedi – che della Repubblica non avevano saputo garantire l’unità e la sicurezza – e guidati dai figli di Anakin Skywalker/Darth Vader (Dark Father?). Vader, che da più promettente dei Jedi si era fatto il più temibile dei Sith, è il personaggio simbolo della serie, il più travagliato, cattivo per amore, che solo il legame con Luke potrà redimere nell’improvviso rovesciamento finale. “Guerre stellari” è insomma un’epica jeffersoniana: il suo centro di gravità è “il valore delle ribellioni e dell’autogoverno, le virtù delle repubbliche e i vizi degli imperi”. Un libro da leggere questo è.
Perché Leonardo passa a Brera