Annoiarsi bene

Mirko Volpi
Il dio del calendario e dei solstizi sa che la misura ideale del tedio esige un clima coerente e adeguato al raggiungimento dell’obiettivo che ogni anno, all’arrivo della così perfettamente padana stagione dell’afa, tutti noi lombardi dell’interno, e in particolare noi abitanti di Nosadello.

Il dio del calendario e dei solstizi sa che la misura ideale del tedio esige un clima coerente e adeguato al raggiungimento dell’obiettivo che ogni anno, all’arrivo della così perfettamente padana stagione dell’afa, tutti noi lombardi dell’interno, e in particolare noi abitanti di Nosadello – isola-simbolo di questo mare senza lungomare e soprattutto senza imbecilli di ogni sesso e di ogni età a passeggio in infradito e pinocchietti e tatuaggi – ci sforziamo caparbiamente e non vanamente di conseguire: un ciclopico frantumamento di balle.

 

Per annoiarsi bene, in buona sostanza, occorre che faccia caldo. E se in città non è tanto il caldo ma l’umidità, qui al paese, così come in tutto l’Oceano Padano, l’inconfutabile verità assiomatica si declina in maniera leggermente diversa: non è tanto il caldo, l’è ’l sòfech – è il soffoco, il soffocamento di quest’aria che non fa l’aria, ma rimane immobile, stagnante, non circola, grava sulle nostre case come un immenso cotechino messo a stagionare in un angusto ripostiglio.

 

Che sòfech, sa bufa no (che soffoco, non si respira), dicono le nostre sciure; mentre le omologhe cittadine preferiscono atteggiarsi ad argute e originali, e dandosi un vezzoso colpo di ventaglio rispondono al classico “come sta?” con un brioso ma sconfortato: “Caldamente bene!”. Sotto sotto però le sciure oceanico-padane godono, e non c’è pressione, pastiglia per il cuore, vena varicosa, piede gonfio, che tenga: grondanti negli scamiciati turchesi, loro la amano, l’umidità – il nostro liquido amniotico. Noi la felicità la misuriamo con l’igrometro.

 

Frastornato dal calore, anche oggi mi accorgo di non voler fare niente, né il bagno nella roggia nuotando a spalletta, né guardare i vecchi al bar giocare a morra, né ascoltare il rombo del menalatte che passa. Solo aspettare l’evento: l’arrivo di quell’odore.
Perché spesso, la mattina, ma più spesso di pomeriggio, poco dopo pranzo, o attorno all’ora di cena, quando la mosca cede alla zanzara (sottraggo senza vergogna il verso a Dante, tanto al bar Gigi di Nosadello non se ne accorge nessuno, anche se in realtà le mosche permangono nelle nostre case pure dopo il tramonto e le zanzare ti aggrediscono in qualunque momento della giornata), insomma, praticamente non si può dire quando capita di più, ma capita con regolarissima, crudele frequenza che per le vie del borgo silenzioso, e lungo tutto il dominio estivo dell’Oceano Padano, si spanda per l’aria l’inconfondibile afrore di letame di vacca. Giunge all’improvviso, pungente (così mia moglie, cui pizzicano le delicate e foreste nari ogni volta che arriva qui), e invade le nostre quiete abitazioni, ci inonda, si insedia tenace sui nostri riposi, aleggia sui cortili deserti: è l’odore di sterco, il sacro, gioioso letame (gli etimologisti di campagna sanno che laetamen viene da laetare, rallegrare) o, se in forma di liquame, il giüs – in definitiva, la merda. Noi ci mostriamo ogni volta inorriditi, schifati emettiamo vernacolari lamenti, commentiamo a voce alta declinando le forme del disgusto olfattivo, ma la verità è che a noi questa tragica puzza piace. Senza che i vicini se ne accorgano ci affacciamo alle finestre, ai balconi, celati da spesse zanzariere o da rustici panneggi, e spalanchiamo i polmoni, respiriamo a tutta bocca, inaliamo il sentore delle origini e della tradizione, la mai espressamente adorata aria di casa.

 

[**Video_box_2**]Quando immerso controvoglia nelle fighetterie mondane e cittadine sento parlare di “aromaterapia”, penso al nostro merdaceo tanfo e mi auguro che nessun hipster, nessun guru del ben vivere, nessun hippy attardato lo scopra mai: ci manca solo che vengano poi qui milanesi, drogati, comunisti, laureati, appassionati di yoga, vegetariani, salutisti e lettori di Tiziano Terzani a distrarci dalla nostra noia. Dalla nostra esclusiva condanna.

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