Pietro Barucci, “Barche di pescatori verso l'aspra”, olio su tela, 1893

I miei nonni tra ancore e navigare

Mario Sechi
Cannoni e mitragliatrici, soldati americani e tedeschi come colonna sonora. Le notti a Torregrande. Desolina e le sue amiche che scappavano in campagna. E quella vita scandita dal rumore del mare.

“Non ho bisogno di tempo per sapere come sei: conoscersi è luce improvvisa”.

Pedro Salinas

 

 

Se tu vuoi scoprire il mio mondo, devi aprire gli occhi e sognare. Se tu vuoi diventare grande, devi imparare a contar le fiammelle del cielo. Ti servirà, un giorno, a riconoscere la luce improvvisa.

 

Io sono venuto al mondo in una notte stellata. Ho aperto i miei occhi, sopra di me c’erano infinite teorie di brillanti, le guardavo mentre venivo cullato tra le braccia di Desolina Careddu, mia nonna, moglie e vedova di Salvatore “Palloi” Marongiu, mio nonno. Il pescatore. E la sposa del pescatore. La ricordo come fosse ora, quella notte. Eravamo al villaggio dei pescatori, a Torregrande. Avevo trascorso la giornata al pontiletto, saltando da una barca all’altra, inebriato dal profumo delle reti, intrise di squame vive di pesce appena pescato, cefali, triglie, spigole, sparlotte, polpi, crostacei. E una stella marina. E una conchiglia. Era un mondo sottomarino che emergeva per il piacere del mio sguardo. Era il tuffo di un delfino, era la pinna saettante di uno squalo. Non c’erano confini, il mio universo era là, tra le baracche dei pescatori e il cantiere navale del maestro d’ascia, Tatano Spanu.  Ero là, come un gatto selvatico tra le dune di sabbia, non avevo ancora sette anni, vagavo nel labirinto del fasciame delle barche in costruzione, quasi stordito dal profumo aspro delle pitture e delle resine, stregato dai bagliori e dalle ombre, dalle asce, dai martelli, dalle tenaglie, dalle pialle, dai chiodi, dai bulloni, dalle catene, dalle bitte, dalle eliche, dalle carrucole, dalle cerniere, dai fanali, dalle molle, dai moschettoni, dai verricelli, dai paranchi, dalle polene. I disegni delle barche erano stesi sul tavolo di lavoro del cantiere, infiniti papiri galleggianti. La vita mi accoglieva a braccia aperte, io la succhiavo avidamente, mai sazio. Nonna Desolina la alimentava con le sue storie di mare e guerra. La mia vita è cominciata così, con due donne: mamma Peppica e nonna Desolina. Il cielo stellato sopra di me, il suo racconto dentro di me.

 

Era vestita tutta di nero, Desolina. Portava l’abito delle donne sarde che avevano perso il marito. Gonna lunga fino a baciarle i piedi, camicia di cotone bianca, scialle e “su muccadori”, il fazzoletto per coprire il capo. Un’eleganza severa che nei giorni di festa s’impreziosiva di ricami, bottoni di filigrana d’oro, colpi di colore si riverberavano sul viso della nonna, dolce e austero. La sua povertà era di regale portamento, ornato di fazzoletti, manti, manticelli, scialli, gonne, drappeggi. Era bellissima, Desolina. Aveva una cascata di capelli ramati, li pettinava tutti i giorni con la stessa cura con cui Penelope tesseva la sua tela.

 

Emanavano uno splendore naturale, li raccoglieva in una treccia che sembrava animarsi di forza mitologica. “Amazzone sulla folgore”, sembrava una nobildonna del Regno di Castiglia. I primi capelli bianchi fiorirono mentre stava superando il ciclopico faraglione dei novant’anni e cominciava a immaginare il suo incontro con la Grande Mietitrice. Mi diceva, con un sorriso: “Mario, morirò…”. No, che non muori, tu vivrai. Sei Desolina Careddu, sei d’acciaio temprato, sei una figlia dei giganti di Monte Prama. 

 

Nonna Desolina, femmina indomabile, regolatrice del pendolo della vita di tutti, guardiano del giorno e (soprattutto) della notte delle sue figlie. Uno degli aspiranti mariti la nominò all’istante “il carabiniere”. Aveva ragione. Mia madre si scontrava con lei in battaglie epiche dove le urla venivano poi vinte da un amore-odio-amore titanico. In fondo, lo scontro era naturale, a Desolina piaceva la nobile arte, la boxe. Ammirava Cassius Clay, mai divenuto Alì in quell’angolo di mondo chiamato Cabras. La Sardegna è così, non ha mezze misure. Non c’è modo di sfuggirle se non per mare e per cielo. E anche quando sei entrato nella legione straniera di quelli che scappano, continui a esserne prigioniero. Abitare nell’isola significa essere maledettamente terrestre, sei in un castello circondato dall’acqua e quando il ponte levatoio si abbassa, schivi le fauci dei coccodrilli e arrivi sulla costa, capisci che cosa animava Ulisse: partire, scoprire, vedere, immaginare. C’è Itaca. Ma c’è anche tutto il resto del mondo.

 

Fu l’immaginazione a rendere tutto possibile. Se nasci in mezzo al Mediterraneo e sei accompagnato nella tua navigazione da una mamma con lo sguardo screziato di smeraldi e una nonna con gli occhi d’ossidiana, se guerra e pace diventano un racconto in “limba”, la dimensione epica ti scorre nelle vene. Nonna Desolina mi ha insegnato, costretto, a parlare sardo. Con lei, la lingua italiana era un accessorio inutile, un orpello per “i continentali”. I sardi non si rendono conto di cosa calpestano quando non studiano “sa limba”. E’ quella la vera autonomia. Francesco Cossiga mi disse: “Mario, noi pensiamo in sardo, poi nell’italiano ci abitiamo”. E’ una bella casa, l’italiano, ma il pensiero profondo è sempre in sardo. Desolina non lo parlava, l’italiano, ne trasfigurava le parole, prendeva volutamente a colpi di leppa – il coltello sardo – quella lingua ostile, troppo dolce e dal suono falso. Non le interessava, era uno strumento dello “straniero”, del dominatore sbarcato con scimitarre, cannoni, colubrine, cavalli, ordini, plotoni. Lo straniero. E l’acqua. Vita e morte. Desolina sapeva benissimo una cosa che “il continentale” non può capire: in Sardegna non c’è il mare. Perché il mare è il pericolo. Aveva visto molte mamme piangere la morte per acqua. Desolina il mare lo guardava da lontano. Come un nemico con la lancia che arriva al galoppo. 

 

Nonna Desolina è l’emblema della vita povera che si conduceva in via Brigata Sassari a Cabras, a quel tempo la strada più malandata del paese, sterrata, con le case basse, i tetti di legno, i muri pieni di foto ingiallite di parenti lontani e santi, le stanze nello stesso tempo giaciglio e ricovero per le reti da pesca. La vita povera non prevedeva l’uso dell’italiano. Parlavano tutti in sardo. Il mare non si interessa della tua lingua. Il mare ha una sola domanda: sai navigare? Mio nonno, “Palloi” Marongiu, sapeva andare per mare, ma era obbligato – come altre migliaia – a dare il pescato ai “meris de pischera”, i padroni dello stagno di Cabras. Pescoso per i ricchi, un tozzo di pane per i poveri. “Palloi” aveva il volto rigato dal sole, sulla sua faccia si aprivano storie di scoglio e di tempesta, di bonaccia e di gioia, di maestrale e miseria. Il mare, con il suo urlo feroce, la sua maestosità, i suoi sprazzi cocenti di generosità, era l’elemento naturale della vita. Era cibo, pane e insieme un annuncio sinistro, come nei versi di Alvaro Mutis: “Un’aria fredda passa / sul guscio duro / dei crostacei. / Un grande urlo solca / il cielo col suo gelido / fulmine d’ira. / Come un tappeto grigio / arrivano la notte e lo spavento”. Segnava i giorni, i mesi, gli anni, le generazioni, l’inizio e la fine di tutto. E quei bambini che giocavano nella polvere di via Brigata Sassari erano germogli a cui non sarebbe stato concesso il lusso di vivere neanche un lampo di fiaba. “Palloi” morì giovane. Da solo, in un ospedale di Cagliari. Di lui non c’è neanche la tomba. Non c’erano lire per funerali e croci e camposanti. Bisognava pensare a quelli che restavano, ai vivi. Desolina era vedova. I piccoli diventarono grandi in un giro di pagina. Le braccia esili di Giovanni, Bonaria, Luigina, Peppica e Giorgio lasciarono i giochi. I maschi in mare, le femmine a fare i lavori più umili nelle case dei ricchi. Il bollettino meteo alla radio era l’unica notizia che aveva importanza. Il resto del mondo non esisteva. La vita era questa per centinaia di famiglie, Cabras era un pianeta che si accendeva e oscurava tutti i giorni senza dover spiegare a nessuno la sua esistenza. Il fatalismo era il verbo del popolo, la vita spiegata e piegata dalle invasioni, il sangue mischiato dal calendario delle dominazioni fu il laboratorio genetico che produsse la storia della bellezza delle donne del luogo, il mito della Bella di Cabras. Sì, lo erano. E lo sono ancora oggi. E bellissima era Desolina. E solissima. E poverissima. Cinque figli da crescere, niente da mangiare. La morte di “Palloi” strappò ai bambini il cuore dell’infanzia per trapiantare sul loro petto quello che batteva la conquista del domani. Mia mamma, tredici anni, fu mandata a Roma nella casa di una ricca signora dell’Olgiata. Le mostrarono la Basilica di San Pietro e lei disse: “E’ più bella la chiesa del mio paese”. Nel suo cuore non c’era posto per altri luoghi sacri, solo per Santa Maria. Tornò a Cabras. Trovò lavoro nella servitù di una famiglia nobile. Là divenne donna, imparò l’arte del ricamo, della cucina, del governo della casa e divenne la promessa sposa di Cesare, mio padre. Desolina vigilava su tutto questo vai e vieni della figliolanza, sul lavorare stanca di quel pugno di bambini cresciuto con gli estrogeni del Novecento: fame e dolore. Puoi solo correre quando senti il colpo di cannone. Desolina Careddu era là, un nuraghe, severa, austera, silente, immanente. La scuola? Non se la potevano permettere. Una spruzzata di classe elementare per le famiglie povere era già un azzardo. Erano gli anni Cinquanta, l’Italia stava spazzando via le sue macerie di guerra, stava inventando il suo boom economico, si costruivano ponti, strade, palazzi, fabbriche, ma la Sardegna era la nostra Africa. Desolina in quel “continente perduto” in mezzo al mare doveva sfamare cinque figli. E Cabras, crudele nella sua bellezza, aveva solo tasche vuote e piedi scalzi. Anche le scarpe erano un lusso. Ricordo negli anni Settanta l’anziano sindaco “Peppantoni” Carrus dondolarsi a piedi nudi, per le vie del paese, con i pantaloni arrotolati e la sigaretta penzolante tra le labbra. Scalzo, come gli uomini che ogni prima domenica di settembre, vestiti con un saio bianco, trasportano di corsa la statua del santo dal villaggio di San Salvatore di Sinis fino alla basilica di Santa Maria a Cabras. Scalzi. Migliaia. Oggi come ieri. La guerra aveva lasciato in eredità macerie e miseria, un feudalesimo che sembrava figlio di un racconto distopico. E un esercito di uomini e donne scalzi. Come Desolina e i suoi figli.

 

Guerra e pace. Cannoni e mitragliatrici, soldati americani e tedeschi, sono la colonna sonora e le immagini di quelle notti a Torregrande. Desolina e le sue amiche scappavano in campagna, si sentivano esplosioni e urla. Un paese in fuga, piangeva e rideva per esorcizzare la paura. Potevi morire. E vivere era un po’ morire. In un villaggio di pescatori e contadini con un sindaco che fu fascista fino alla fine degli anni Sessanta, lei un giorno, senza ragione, mi confessò: “Deu seu po sa fracchi”. Io, sono per la falce. Votava i comunisti. Senza sapere chi fossero Marx, Lenin, Togliatti, Gramsci. Lei era “per la falce”. Quel simbolo era “lavoro”, qualcosa che le trasmetteva una speranza per i suoi figli. Non c’era alcuna ideologia, solo il bisogno primordiale di abbattere il muro della povertà. “Sa fracchi”. La falce. Non ci aveva messo neppure il martello, Desolina. Dove c’è la falce, c’è il grano. Non potete immaginare cosa sia la povertà, la sua brutale e inesorabile durezza, se non l’avete vista brillare come una mina nel racconto dei vostri nonni.

 

Mentre “Palloi” pescava, “Predu”, il padre di mio padre, il pesce lo vendeva. Pietro Sechi era un “pizzicaiou”, commerciava la pregiata materia prima dello stagno di Cabras e del golfo di Oristano, muggini di qualità superiore, su pisci ’e scatta, e la miglior bottarga di tutto il Mediterraneo. “Predu” trafficava tutto il giorno con il ghiaccio e le cassette di pesce. Sulla bicicletta, la mitica torpedo, si arrivava fino ai primi paesi della montagna, a Santu Lussurgiu, per vendere quel pesce dal gusto raffinato. “Predu” era un uomo anch’egli austero, il capo sempre un po’ chino, gli occhi pensosi. Un suo ritratto è appeso sui muri di casa Sechi, a Cabras: un giovane con i capelli corti, occhi nerissimi, baffi appuntiti, divisa della Marina Militare. Una famiglia di navigatori. Il fratello, Salvatore, morì nell’affondamento della corazzata Roma. I bombardieri tedeschi la fecero colare picco a 16 miglia dal golfo dell’Asinara il 9 agosto 1943. Una casa, due attrazioni fatali: navi e donne. Anche dello zio caduto in guerra c’è un ritratto: occhi cerulei, un maschio con un viso di raffinata bellezza. L’altro marinaio, nonno “Predu”, sopravvisse al conflitto, ma morì che io ero poco più di un infante. Ne ho pochi ricordi, sfocati come i clic di una vecchia Polaroid, ma uno resta di un bagliore fortissimo: ero con lui quando per la prima volta vidi un cavallo. Bianco, come nei racconti di Re Artù. Si aprì un portone e… il cavallo bianco.

 

Lo vedo ancora agitare la coda. E la criniera. E quegli occhi profondi che emettevano il suono dei tamburi della Sartiglia. E poi, eccola, un’altra scintilla, “su schinchiddiu” della legna d’inverno: sono seduto sulle ginocchia del nonno, di fronte al camino dove arde il fuoco. Il cavallo, la libertà. Il camino e il fuoco, il tepore della casa. Questo è stato per me “Predu” Sechi, marito di Anna Atzori, padre di Cesare, Daniele, Mario, Salvatore, Giovanna e Virginia. Un pizzicaiou di Cabras, prototipo ambulante dei commercianti che oggi trasformano e vendono il pesce e la bottarga. Riaffiora dalla memoria nonna Desolina che apre con il coltello la pancia dei muggini, ne estrae le uova e comincia la lavorazione della bottarga. Le tavole di legno che sopra e sotto, come incudine e martello, premevano sulle uova del pesce, fino ad appiattirne le rotondità naturali, il sale sparso, la lenta maturazione e essiccazione. Il ritmo della vita era dettato dal mare, dai suoi frutti e dai suoi flutti. I figli maschi non più bambini, ragazzi ormai sposati con le onde e fidanzati a sprazzi con le giovani mogli, nonna Desolina che intrecciava le reti da pesca con la stessa rapidità del ninja con la spada. I figli Giorgio e Giovanni erano uomini di mare, Peppica, Luigina e Bonaria erano mogli e mamme. E poi c’ero io, un bimbo catapultato nell’avventura. E lei, la nonna, l’unica capace di tenermi a freno con il suo mistero. Desolina continuava a fare la sua vita solitaria, scandita dal rito quotidiano della sua regale pettinatura. Ogni giorno, dopo la scuola, scappavo dalla mia classe elementare di via Cesare Battisti a Cabras verso via Brigata Sassari, a casa della nonna. Desolina era la fuga, l’indipendenza, l’immaginario, la scoperta. Aveva un armadio dove conservava vestiti e conchiglie. Ho imparato in quella casa umile e spartana ad ascoltare il rumore del mare dentro le conchiglie. E’ una cosa che la prima volta ti toglie il fiato e spalanca la mente. E’ così che sono stato conquistato dal desiderio di leggere Moby Dick e capire la poesia sottomarina di Herman Melville. E’ l’onda remota di quella conchiglia che mi ha consegnato le pagine del Vecchio e il Mare e la scrittura fatta di onde, sole cocente, salsedine e morsi di squalo di Ernest Hemingway. E quel guscio sonante che mi ha consegnato la mappa dell’Isola del Tesoro di Robert Louis Stevenson. E quell’eco sottomarina che mi ha aperto i cancelli degli alisei e delle vele, degli alberi maestri e dei fiocchi, delle ancore e delle polene, dei mozzi e dei nostromi, dei capitani e dei pirati, del gigantesco Marlin e della Balena Bianca, del capitano Achab e del vecchio pescatore Santiago, del giovane Jim Hawkins e del furbo e navigato Long John Silver. Nonna disegnava navi e pescatori e mi chiedeva sempre nuovi colori. Pennelli, pennarelli, matite. La danza della sua mano si materializzava con le linee delle barche e le figure di capitani che fumavano la pipa sul ponte di comando. “Custa esti sa bracca e custu esti su cumandanti”, questa è la barca e questo è il suo comandante. Sì, nonna, lo vedo, è bellissimo. Senza Desolina, non avrei mai aperto il mio diario di bordo. Senza Desolina non avrei mai cominciato la mia navigazione. Se n’è andata qualche anno fa, ultranovantenne. I capelli lunghissimi, la treccia al suo posto, perfetta. Non sono andato al suo funerale. Volevo conservare questi ricordi, senza mischiarli a un ultimo saluto che per me non c’è mai stato. Niente è cambiato. E’ di fronte al foglio bianco che ritrovo la sua voce, il ritmo del suo tempo. Andiamo nonna Desolina, è giunta l’ora di sciogliere gli ormeggi, levare l’ancora e navigare.

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