Quando Nora rimase vedova, ancora bella e piena di pretendenti, non volle più risposarsi, per amore di quel marito spiritoso, tenerissimo e precocemente invecchiato, che rimpiangeva con nostalgia

Mio nonno mi salvò la vita

Marina Valensise
Il nonno Saro sembrava uscito da un racconto di Cechov. Si chiamava così per grazia ricevuta dalla Madonna del Rosario. Quella sera, rincasò prima del previsto.

Quella sera il nonno Saro rincasò prima del previsto. Non succedeva mai che rientrasse tanto presto, nell’ora canonica della passeggiata. Di solito, trascorreva la serata al Circolo, seduto sulle famose seggioline con le alette, a chiacchierare con gli amici. Da quella postazione riusciva a vedere le luci di casa sua, il quadrilatero art déco costruito nei decenni e mai finito, che occupava il lato opposto della piazza di Palmi. Per percorrere i duecento metri che separavano il Circolo di società dal portone di Corso Garibaldi poteva anche impiegare due ore, ciondolando sotto i lampioni al neon, per intrattenersi con le decine di persone, amici, conoscenti, pazienti, che si fermavano a salutarlo e con lui andavano su e giù lungo la piazza. Il nonno Saro era un uomo buono, molto pigro e spiritoso e per questo molto amato. Dotato di sottile ironia, aveva un sorriso malinconico, lo sguardo vivo, sempre un po’ sospeso tra lo stupore e il gusto del ridicolo, che però tradiva pensieri profondi, dolori antichi e una generale disattenzione nei confronti della vita, mitigata da estrema dolcezza. La piazza di Palmi era il suo regno, il teatro naturale delle sue gesta, l’arena della vita civile. Pur essendo privo di cariche ufficiali, il nonno Saro infatti avevo un senso molto alto della vita pubblica e dei connessi doveri. Adorava i funerali, rito cruciale nei paesi del sud, mentre rifuggiva da matrimoni e battesimi, occasioni per lui di noia e di aperto contrasto con la moglie che invece amava la vita di società e mal sopportava quella stranezza. Il fatto è che l’estro del nonno dava il meglio nei momenti di cordoglio, abbracciando gli amici in lutto, consolando vedove, figli, parenti del defunto. Da calabrese autentico aveva un fondo di arcaismo che lo rendeva sensibile al dolore altrui e consapevole di quanto la vita, con le sue gioie inutili e fugaci, fosse una valle di lacrime da attraversare con distacco, ma non senza mostrare grande solidarietà verso i propri simili. Pur essendo molto spiritoso, dunque, restava un uomo grave per il quale il lutto e la partecipazione al lutto erano il cemento di una comunità, il tessuto connettivo di tante vite, che rendeva tollerabili la solitudine, il dolore, la morte.

 

Quella sera dunque, stranamente, il nonno Saro tornò a casa in anticipo. Salutato il capriolo in gesso che dava il benvenuto in cima alla fontana rivestita di mosaico verde a chi entrava nel quadrilatero art déco, salì le scale di marmo, e s’infilò quasi di corsa nel lungo corridoio stretto e buio, con le imposte sbarrate contro il sole, lo scirocco e i rumori della piazza. D’improvviso, nell’ultima stanza ad angolo, che allora serviva da sala da pranzo, ma ogni due o tre anni cambiava destinazione, si ritrovò davanti a una tragedia greca. La moglie in lacrime, impietrita dal dolore, nonostante il tubino nero e il tacco 12, che s’ostinava a portare sempre e dovunque, sprezzante di ogni comodità che contrastasse con la sua idea del bello e il sacrificio atto a realizzarla. La figlia, con lo sguardo vitreo, teneva in braccio un fantolino di tre mesi ormai cadavere, completamente cianotico, e pareva porgerlo in sacrificio sull’ara del dio Moloch, per placarne l’ira. Tutt’intorno un silenzio spettrale. Al posto delle urla, delle risate e del chiasso perpetuo prodotto dai figli maschi, che deambulavano per casa in stivali da caccia, bardati di tre giri di cartucciere sui fianchi, quando non si cimentavano in gare di canottaggio sul vogatore, s’alzava flebile il coro del lamento femminile.

 

Il nonno Saro, che pure era un tipo calmo, per niente reattivo, abituato ai ritmi lenti della provincia, afferrò con un balzo il fantolino dalle braccia della figlia, e si precipitò nel bagno, aprì il rubinetto della vasca e fece scorrere su quel cadaverino un getto improvviso di acqua fredda. Moglie e figlia rimasero inebetite. Erano semimorte anche loro. Passò un minuto che parve un’ora, e la bambina ebbe un sussulto, iniziò a piangere e tornò alla vita, risorta dalla morte per soffocamento dopo un attacco violentissimo di tosse convulsa. A nulla era servita la bombola di ossigeno che da giorni la seguiva come una balia. Vittima dei fratelli maggiori che frequentavano l’asilo assorbendo i germi di ogni possibile malattia infantile, la piccolina non aveva potuto resistere alla contaminazione della pertosse, sino a subire quell’attacco improvviso che si sarebbe rivelato fatale se quel pomeriggio di maggio la Provvidenza non avesse mosso anzitempo il nonno verso casa, per compiere il miracolo della resurrezione, senza del quale oggi non sarei qui a raccontarlo.

 

Il nonno Saro sembrava uscito da un racconto di Cechov. Era un uomo compatto, proporzionato, col viso scavato da profonde rughe, e capelli castani lisci e sottili, tirati indietro sulla fronte. Aveva mani piccole dai movimenti precisi. Le falangi della dita erano coperte di fitti peli lunghi e lisci che approdavano lì dopo aver percorso il dorso della mano, il polso e tutto l’avanbraccio come un soffice manto di velluto. Quando alzava il polso, si vedeva la testa dell’ulna disegnare un perfetto rettangolo – caratteristica ereditata anche dai figli e più tardi dai nipoti – corrispondente tecnicamente al flessore ulnare del carpo, dove il verso del pelo s’interrompeva per salire e scendere, formando un piccolo movimento eccentrico, anche se non ribelle, rispetto a quello dei peli sull’avambraccio.

 

Corrispettivo oggettivo dell’energia vitale, dell’eleganza virile, era, a ben pensarci, un indice del tutto incongruo con l’indole del nonno, che era un uomo di tempra, ma piuttosto un mite, un tipo remissivo, vinto dalla vita, rassegnato ai capricci del destino e alla sequela di colpi funesti che s’erano accaniti su di lui sin dagli anni giovanili, facendone un giovane precocemente invecchiato.

 

A vent’anni, studente di Medicina a Pisa, durante la visita per il militare, aveva appreso la notizia dell’improvvisa morte del padre leggendo per caso il titolo di un giornale. “La Camera dei deputati piange la scomparsa dell’on. Alessio”. Era il febbraio del 1917. Nudo, con indosso il solo cappotto, cadde a terra svenuto, venne ricoverato senza conoscenza e per un anno non riuscì a prendere sonno. Clinici illustri, neurologi, psichiatri chiamati a consulto gli diedero un mese di vita. Ma quel giovanotto col naso aquilino, destinato a diventare il padre di mia madre, resistette insonne e stralunato, depresso e disperato, finché l’anno dopo non perse anche la madre, vittima dell’epidemia di spagnola. A ventun anni, dunque, il nonno Saro si ritrovò solissimo capofamiglia di tre sorelle non proprio bellissime, di cui solo la prima, alquanto eccentrica e viziata, era già convolata a nozze. Per fortuna, aveva il sostegno dello zio Memmo, il fratello minore alto, biondo, occhi azzurri, simpatia contagiosa, amante della caccia e delle donne, che sarebbe stato il pilastro della sua vita. Il loro padre, mio bisnonno, deputato del Regno, era morto d’infarto a 54 anni. Stimato civilista, liberale e giolittiano, era un self-made man di pervicace tenacia, che con la sua professione aveva messo in piedi una ingente fortuna, dopo aver tenuto testa al suo despotico genitore dal quale era stato diseredato per essersi rifiutato di lasciare l’amatissima fidanzata, dopo la rottura del fidanzamento tra il fratello di costei e la sorella di lui. Del bisnonno Giovanni restano alcuni saggi di diritto, vari discorsi parlamentari – fu eletto nella XXII legislatura nel 1904 vivendo dunque in prima linea il terremoto del 1908, con proposte di legge innovative. Nella casa di Palmi c’è ancora un busto in bronzo con due immensi baffoni, che a noi bambini faceva paura, e soprattutto resta qualche suo motto nel lessico famigliare. Al cugino Ubaldo, nipote cretino e scavezzacollo, che assegnato a residenza obbligata nel suo studio legale a fini rieducativi passava ore intere fingendo di studiare il latino mentre non faceva altro che declinare come uno scimunito un’unica frase all’infinto – “Tu credi che io studio e io non studio, tu credi che io studio e io non studio” –, il bisnonno Giovanni replicò con quello che i discendenti avrebbero trasformato in motto araldico: “Tu pensi che io me ne fotto, e io me ne strafotto”. Questo Ubaldo poi finì malissimo. Impermeabile al genio dello zio e alla sua pedagogia d’urto, emigrò in Argentina, dove riuscì a impalmare una specie di miss Mondo, la quale, truccatissima e ingioiellata, alla vigilia delle guerra venne deportata da Buenos Aires a Molochio, austero borgo fra i boschi di ulivi dell’Aspromonte, dove uscì completamente di testa, maledicendo il marito: “Me engañó, me ruinó…”.

 

Il nonno Saro era stato ribattezzato così da sua madre per grazia ricevuta dalla Madonna del Rosario, che l’aveva salvato dalla scarlattina. Ma in realtà si chiamava Herbert, come Herbert Spencer, filosofo positivista ammirato dal bisnonno Giovanni, che per i figli scelse tutti nomi assurdi, Ines, Henny, Nada, dopo aver rotto col padre, garibaldino rissoso che il giorno del suo matrimonio con la sorella dell’ex fidanzato della figlia si mise il lutto al braccio.

 

Nel 1925, il nonno Saro sposò a sua volta una ragazza di buona famiglia con gli occhi grigi e l’aria sognante. Il loro fu, dopo due anni di corteggiamento e lunghe lettere da Torino, un matrimonio d’amore, benché all’epoca prevalesse il genere combinato, tra perfetti sconosciuti, previo accordo patrimoniale tra le famiglie, perché come avvertivano gli esperti “l’amore viene dopo”. Per loro invece venne subito. La sposa, che doveva diventare mia nonna Nora, era bellissima. Anche lei orfana di padre, veniva da una famiglia di armatori napoletani convertiti in Calabria all’agricoltura intensiva dopo l’acquisto dei beni della Corona in seguito all’Unità. Fornita di dote cospicua, era dotata soprattutto di una madre matriarca, che rifulge ancora al centro delle vecchie fotografie con gli sposini. La nonna Capua, dominatrice e autoritaria, entrerà a gamba tesa nella letteratura grazie a Leonida Repaci, amico di famiglia e soprattutto di suo figlio Alberto, il primogenito che per lei fece le veci del marito, immortalato in un capitolo di “Calabria grande e amara” dedicato all’asfissia esclusiva dell’amore materno. Rimasta vedova a trentott’anni, con sette figli, di cui cinque femmine, la nonna di mia madre, trovandosi ad amministrare il patrimonio di famiglia, dovette vigilare con cura sulle possibili alleanze, tanto da prospettare l’apparentamento con gli zingari e imporre alle figlie un ordine di entrata in scena inflessibile, per rispettare i canoni anagrafici, prima che estetici, necessari a stringere scambi proficui. “Tu per ora non compari” decretava per esempio alla terzogenita quando ancora era in ballo la secondogenita. Irretite dal suo diktat senza appello, le figlie si piegavano alla volontà materna, e per tutta la vita tentarono senza successo di emularne l’energia. Mia nonna, per esempio, era l’esatto opposto di sua madre. Temperamento di artista, viveva in un mondo tutto suo, suonando il piano, dipingendo acquarelli, lavorando a piccolo punto e leggendo le poesie di Lorenzo Calogero nel giardino di Melicuccà. Anche lei, come il futuro marito, coltivava un distacco dall’esistenza, tinto però di disattenzione. Delle cose della vita, sapeva poco e niente. Con le sorelle era stata spedita a Napoli in collegio, dalle Dorotee, e finita la scuola era andata incontro al suo destino, rimpiangendo poi di non aver potuto studiare, mentre i fratelli frequentavano l’Università di Heidelberg e viaggiavano per l’Europa. Era così ingenua che era convinta che i bambini nascessero dall’ombelico, unico elemento del corpo umano ai suoi occhi privo di funzione, e per effetto del bacio che gli sposi si scambiavano in chiesa. Lei stessa me lo confessò negli anni Ottanta, quando il femminismo imperversava e anche le nonne avevano il loro sussulto di autocoscienza. “Come nascono i bambini?”. “Te lo spiegherà tuo marito”, le rispose la nonna Capua. Così fu il nonno Saro, che fra l’altro era ginecologo, a spiegarle dolcemente quale fosse la procedura giusta, riuscendo perfettamente nella dimostrazione. I due ebbero cinque figli nonostante fossero una coppia disfunzionale, lei socievole, ambiziosa, lettrice infaticabile e curiosissima. Lui pigro, metafisico, fatalista, oberato da debiti e dal senso di fallimento. Eppure, quando rimase vedova, ancora bella e piena di pretendenti, lei non volle più risposarsi, per amore di quel marito spiritoso, tenerissimo e precocemente invecchiato, che rimpiangeva con nostalgia. La loro casa era il regno del caos, il desco quotidiano, su un incongruo tavolino a tre piedi, sembrava una barca in tempesta, coi figli rissosi e viziati che s’alzavano d’improvviso con un colpo di remi e si proclamavo disertori del pasto, “non mi piace, non ne voglio, è assai”, refrattari a ogni disciplina, che del resto doveva apparire una chimera a quei due anarchico-liberali che erano i miei nonni, completamente persi nel mare della vita, se non avessero avuto per unica bussola l’amore, nella sua dimensione metafisica.

 

[**Video_box_2**]In realtà, la nonna Nora, col suo animo d’artista, era molto più avanti del suo tempo, anche se non fece mai nulla per dimostrarlo, accettando con pazienza che la trama delle circostanze si trasformasse in destino, negli anni tragici della guerra vissuti in campagna con la moglie di Ubaldo fra i contadini di Molochio, divorando le riviste mediche del marito per placare l’angoscia di saperlo lontano, in pericolo, forse addirittura morto. Il nonno, ufficiale medico, si salvò per miracolo dal naufragio della nave ospedale Tevere saltata su una mina inglese, e poi finì sulla Gradisca, che dopo l’8 settembre venne sequestrata dai tedeschi e abbandonata a Marsiglia con l’equipaggio ridotto alla mendicità. Per lunghi mesi del nonno non se ne seppe nulla. Quando dopo un viaggio a piedi con mezzi di fortuna arrivò a Roma, in casa del fratello, era irriconoscibile, pelle e ossa, scarpe sfondate, sembrava Charlot. La nonna Nora, intanto, soffriva paziente e l’aspettava in campagna, perché il quadrilatero di Palmi era stato sequestrato dagli inglesi. Era una donna che sembrava svagata, sempre inopportuna e fuori sincrono, spesso inutilmente polemica. E invece forse era solo assorta nei suoi pensieri, nel geroglifico del possibile e dell’eventuale. Un giorno, mia madre agitatissima le raccontò che la figlia adolescente di una sua amica era partire in vacanza per la Scozia, da sola in macchina col suo boyfriend. “E chi guidava?”, domandò mia nonna per nulla scandalizzata. Indifferente alla liberazione sessuale, alla sovversione delle norme, era quello l’unico dettaglio che davvero l’interessasse, perché forse le serviva a inferire nella sua fervida mente di artista certe ramificazioni induttive sulla natura del rapporto di coppia, sulla persistenza del predominio maschile, sull’equilibrio dei ruoli e chissà quali altre variabili.

 

Il più grande dolore della sua vita fu la morte della figlia primogenita, colpita a quattordici da un attacco di meningite fulminante, mentre in America avevano già scoperto la streptomicina. Fu un altro lutto atroce che sconvolse la sua vita e che però salvò il nonno dal naufragio della nave Tevere. Annus horribilis, nel 1941, sei giorni dopo Titina, morì sul fronte pure lo zio Memmo, anche se per anni anni nessuno seppe niente di quel quarantenne aitante, pieno di donne, ma ancora celibe e però già padre di una figlia naturale, per ottemperare a una mitologica contadina che l’assisteva durante le battute di caccia e riluttava a maritarsi “ca vogghiu a bbui”, come un giorno dichiarò. Lo zio Memmo era partito volontario, forse in cerca di un diversivo più che per convinzione ideologica. Di lui s’erano perse le tracce. Veniva dato per disperso. Intanto sua figlia, ignara della verità finché il nonno Saro non le disse “casa tua è questa”, continuava a vivere coi nonni come la sesta figlia. L’assenza di notizie, l’incognita della guerra, l’angoscia delle famiglie erano moneta corrente. Un bel giorno, leggendo un libro di propaganda, la nonna Nora scoprì il racconto del cappellano militare di un reparto di bersaglieri che resistette all’attacco soverchiante degli inglesi, in Cirenaica, asserragliato in una casa cantoniera a 39 chilometri da Agedabia. L’eroico capitano, un calabrese biondo con gli occhi chiari, gli era morto fra le braccia dissanguato, in mancanza del laccio emostatico che fermasse l’emorragia dell’arteria femorale. La nonna capì che quel capitano era suo cognato. Ritrovò il cappellano, che fra le ultime cose ricevute in Africa le diede la prova che era davvero lui, una stelletta della nave ospedale regalo del nonno Saro. Recuperata la salma, per lo zio Memmo, medaglia d’argento al valor militare, i nonni costruirono una tomba ultramoderna nel piccolo cimitero di Molochio, dove lo misero accanto alla nipotina e di fronte a sua madre e a suo padre, il bisnonno Giovanni, e dove oggi sono sepolti anche loro e i loro figli. La vita, per quanto bella e ricca, sa essere anche spietata, tanto più se si accanisce contro persone buone, armate di sola ironia.

 

Le precedenti puntate della serie: Annalena Benini il 22 luglio, Marianna Rizzini il 28 luglio, Mario Sechi il 31 luglio, Mirko Volpi il 4 agosto, Fabrizio Cicchitto il 7 agosto, Daniele Bellasio l’11 agosto, Maurizio Milani il 13 agosto, Renzo Rosati il 18 agosto.

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