A Venezia troppi remake, ma "Everest" viaggia verso l'Oscar

Mariarosa Mancuso
Aprire la Mostra di Venezia con “Everest” è un dichiarato remake dell’edizione 2013 inaugurata da “Gravity”. Regista arrivato a Hollywood dalla provincia dell’impero: Alfonso Cuarón, che sceneggiò l’avventura spaziale assieme al figlio, veniva da Città del Messico, Baltasar Kormákur viene dall’Islanda.

Aprire la Mostra di Venezia con “Everest” è un dichiarato remake dell’edizione 2013 inaugurata da “Gravity”. Regista arrivato a Hollywood dalla provincia dell’impero: Alfonso Cuarón, che sceneggiò l’avventura spaziale assieme al figlio, veniva da Città del Messico, Baltasar Kormákur viene dall’Islanda. Entrambi ragazzi degli anni Sessanta, puntano su spettacolari panorami – la montagna, la terra vista dalla navicella spaziale – e su attori di richiamo. Sandra Bullock e George Clooney astronauti (lui, ora lo possiamo dire, in una particina minuscola, utile a vendere il film). Jake Gyllenhaall, Josh Brolin, Kyra Knightley e Robin Wright nelle disastrose spedizioni alpinistiche del 1997. A raccontarle, il sopravvissuto Jon Krakauer in “Aria sottile”, che subito divenne un bestseller internazionale (Sean Penn si innamorò di un altro suo reportage, e ne ricavò “Into the Wild”). La speranza è che “Everest” parte dal Lido per una marcia trionfale verso gli Oscar. Come “Gravity” e come “Birdman” di Alejandro González Inárritu, altro regista nato alla periferia dell’impero. Unica differenza: qui non si trattava di uomini (o donne) confrontati con le asperità del creato, ma di un attore che cercava di risalire la china e di ottenere approvazione intellettuale. Il che, va detto, produceva dialoghi più brillanti di quelli tra compagni di cordata o di astronave.

 

Remake anche per i quattro film italiani in concorso. Saranno troppi? Saranno fischiati? Saranno capolavori? Faranno litigare? Di una cosa siamo sicuri: sentiremo critiche feroci e battutacce nel capannelli all’uscita dalle proiezioni stampa, tutte puntualmente rimangiate nelle recensioni del giorno dopo. L’idea già fa sbadigliare. Poi pensiamo che l’anno scorso ci toccò “Il giovane favoloso” di Mario Martone – “il gobbo di Recanati” – e pensiamo che a tutto si sopravvive.

 

Anche a un film in costume con Alba Rohrwacher monaca diretta da Marco Bellocchio, regista che già un paio di volte ha dichiarato “mai più a Venezia in concorso” (quando non vinse il Leone d’oro con “Buongiorno notte” e quando neanche i suoi fan sfegatati riuscirono a dire una parola gentile a proposito di “Bella addormentata”, istant movie su Eluana Englaro). “Sangue del mio sangue” fa da titolo. “Quanto è presente il passato?” fa da esca, in un trailer dove tutti paiono in libera uscita dalla filodrammatica. Però sono gli attori preferiti dal regista – che al festival di Locarno avrà il Pardo d’onore, mezzo secolo dopo la proiezione di “I pugni in tasca” – quindi saranno universalmente lodati. Luca Guadagnino porta “A Bigger Splash”. Titolo rubato alla piscina con lo spruzzo di David Hockney e trama adattata dal film di Jacques Deray “La piscine”: una partita a quattro tra Alain Delon, Romy Schneider, Maurice Ronet, Jane Birkin. Giuseppe Gaudino con “Per amor vostro” si ispira al terzo canto dell’“Inferno” (aiuto! di nuovo il liceo classico). Piero Messina, in “L’attesa”, porta in una nebbiosa Sicilia la luttuosa Juliette Binoche. O forse era nebbiosa l’attrice e luttuosa l’Etna.

 

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