Le tre Grazie, particolare de "La Primavera" di Sandro Botticelli

Le parole tra noi pesanti

Alessandro Giuli
Ci sono le parole tra noi leggere, quelle che pronunciamo senza pensarci, come un aggettivo impigrito, perché il vuoto va colmato e l’innato senso comune delle nostre latitudini ce le suggerisce così.

Ci sono le parole tra noi leggere, quelle che pronunciamo senza pensarci, come un aggettivo impigrito, perché il vuoto va colmato e l’innato senso comune delle nostre latitudini ce le suggerisce così (Che Guevara, per esempio, mica si chiamava Che: il suo nome era Ernesto, quel “Che” è un intercalare argentino e alla lettera significa “uomo” e serve a richiamare l’attenzione nell’eloquio, tipo: non so se mi spiego signora mia). Qui usiamo parole gergali come “daje”, “maddài”, “cioètteprego”, “infatti sì” – io uso molto anche “da paura” – o avverbi tremendi tipo “cortesemente”. Parole che possono diventare virali e siccome vanno di moda passeranno anche di moda, ce ne stancheremo, ne troveremo di peggiori e più facili da usare.

 

Ma ci sono poi le parole tra noi pesanti, quelle che dentro hanno un mondo di senso, un eccesso perfino, e che noi, colpevoli e smemorati, dissipiamo fino a rendere banali anche loro. Una di queste, la più importante forse, è “grazie”. Deepak Singh, scrittore indiano stanziato nel Michigan, segnala sull’Atlantic come in America (ma non c’è molta differenza con noi) abbiano svuotato, svilito e vilipeso l’atto del rendere grazie. Succede così, succede almeno cinquanta volte al giorno, alla cassa del bar, con l’autista dell’autobus, con la moglie che abbassa l’audio del televisore, perfino con il vigile urbano che mi ha appena consegnato una multa per eccesso di velocità. Non è educazione, è forse decadenza? Lui, cresciuto nella città settentrionale indiana di Lucknow, non ha mai detto dhanyavaad ai suoi genitori, non li ha mai ringraziati così, senza pensarci, per una sorda forma di cortesia, proprio perché sarebbe suonato offensivo. In India ci si ringrazia poco o nulla tra consanguinei e, con un estraneo che non lo è più, lo si fa congiungendo le mani, guardandosi negli occhi, per segnalare una sopraggiunta famigliarità. Ma dire a un parente “grazie per essere venuto a casa mia” significa più o meno “è ora che tu esca da casa mia”.

 

[**Video_box_2**] Dhanyavaad non è solo una testimonianza di gratitudine, è una formula da non sconsacrare. E noi che indiani non siamo, pur essendo parenti più stretti di quanto s’immagini? Ci basterebbe un minimo sindacale di attenzione a non gettare via le parole come fossero lattine vuote, ma è una questione che si può risolvere meglio al dettaglio, dotandosi di codici personali e non sempre condivisi. Impedirsi di pronunciare certe parole, scelte a caso oppure no, è un modo per sorvegliarsi, uno dei segreti dell’autoperfezionamento. Io per esempio non dico più “ciao” dopo che ho letto chissà dove che deriva dal dialetto veneziano e sta per “servo tuo”. L’autodivieto genera però silenzi spesso impacciati, saluti farraginosi, “salve” a ripetizione. E allora è meglio dirlo, qualche volta, ciao, per non irrigidirsi nel verso opposto. E grazie? Grazie è il nome delle tre figlie di Giove e Venere, le Chàrites elleniche, la parola richiama il dono, l’avvenenza e appunto una grazia speciale che viene dell’alto. Usarlo è bello, in latino si ringraziano gli Dei dicendo gratulor; e gli umani pure, volendo, però è consigliabile farlo senza pretese di reciprocità, per non restare delusi.

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