“Però c’è anche un altro tipo di intellettuale che si sporca un po’ le mani, che sta dentro la realtà, penso a Pietrangelo Buttafuoco, o a Pier Paolo Pasolini, uno che assume su di sé i rischi”

In Vivavoce con De Gregori

Annalena Benini
Le sue Superga bianche, l’amicizia con Dalla (“ho un concerto a Viterbo, tu che cazzo fai?”), la diffidenza per gli intellettuali e la cognizione della leggerezza in un poeta non moralista. Alla quindicesima Gitane senza filtro, il cantautore romano ci racconta che cosa l’ha cambiato - di Annalena Benini

Alla quindicesima sigaretta del pomeriggio, Gitanes senza filtro, Francesco De Gregori dice: “E’ vero, vent’anni fa, ma anche dieci anni fa, non l’avrei mai fatto”. Andare a “X Factor”, ricantare Alice con Ligabue, scherzare con Checco Zalone, scrivere una canzone per un film di Paolo Genovese, fare un audiolibro su “America” di Kafka (e prima “Cuore di tenebra” di Conrad), entrare in un video di Fedez, non leggere cinque giornali ogni giorno, non guardare otto tg e sentirsi bene lo stesso, telefonare e dire: devi ascoltare assolutamente Caparezza, è meraviglioso. E passare le ore prima del concerto (il primo del tour di “Vivavoce”, a Roma) nei cunicoli del Palalottomatica non soltanto con i fonici, la band, il giovane cantante emozionato che aprirà il concerto, le Gitanes, il caffè e Ambrogio Sparagna che suona l’organetto in due canzoni riarrangiate assieme, ma anche sopportando lì seduto, o in piedi con la chitarra a riprovare Titanic, la cronista che accende il registratore e pretende di sapere che cosa c’è di diverso, adesso, in Francesco De Gregori. “Sarà per un fatto di maturità, e perché è cambiato il mondo intorno a me in meglio, ma è vero che è un po’ cambiato anche il modo in cui io lo guardo. Sono sempre stato aperto alle distanze. Se una cosa è distante da me non solo non mi fa paura, anzi mi eccita, ed è un processo assolutamente spontaneo, ma sostenuto da un ragionamento: so che non voglio chiudermi al mondo nell’area museale che potrebbe rappresentarmi perché ho scritto cinque, sei, dieci canzoni di quelle che rimangono. Non posso restare, nella mia testa, quello di Rimmel, io sono altro, sono anche Calypsos, Finestre rotte, non voglio fare il Bufalo Bill della canzone, che rievoca i tempi gloriosi del West su un palco a Sarzana o a Torino, e forse già inconsciamente lo sapevo nel 1976 quando ho scritto Bufalo Bill”. “Tra bufalo e locomotiva la differenza salta agli occhi, la locomotiva ha la strada segnata, il bufalo può scartare di lato e cadere”. De Gregori parla e dentro le persone che vanno e vengono e lo salutano e un po’ ascoltano quest’intervista, parte una musica, non muovono le labbra ma si capisce che stanno cantando.

 

 

“E poi sono un uomo giovane, ho sessantaquattro anni”. Francesco De Gregori ha infatti ancora addosso le Superga bianche di quando era un ragazzino sconvolto da Fabrizio De André, “anche esteticamente. Andai dal parrucchiere con una rara foto di Fabrizio e dissi che volevo i capelli come i suoi, volevo quel ciuffo meraviglioso. Il parrucchiere disse: ma tu non ce li hai così, sei riccio. Allora me li feci stirare. Ero troppo riccio per assomigliare a De André e troppo liscio per assomigliare a Bob Dylan”. Il fratello maggiore Luigi, musicista, accompagnava Francesco le prime volte al Folkstudio a cantare e gli diceva: “Non ti demoralizzare se qualcuno si alza e se ne va, succede sempre, non ti preoccupare se sbagli qualche accordo, nessuno ci farà caso, ma cerca di ricordarti le parole delle canzoni, leggerle sul foglietto è brutto”.

 

Tre consigli fondamentali per l’esistenza di chiunque, non solo per un cantante, tre cose da salvare anche dentro quel verso de La ragazza e la miniera, riarrangiata e riportata meravigliosamente alla vita: “E se potessi ricominciare da capo, quello che ho fatto non lo rifarei”.

 

Vale per tutti, vale per le cose che a ripensarci non avremmo voluto dire, per i giudizi affrettati, i pregiudizi sbagliati, tutto quello che semplicemente si scioglie nel passare dei giorni e ci ritrova dalla stessa parte, ma diversi, più aperti, a volte migliori. “Il mio rapporto con gli altri si è sicuramente addolcito – dice Francesco De Gregori mentre aspetta che vengano a chiamarlo per il soundcheck (l’acustica imperfetta del Palalottomatica, “la peggiore d’Italia”, è oggetto di lunghe discussioni, altre sigarette e molti caffè con quelli della band, con Sparagna che è allegro lo stesso, con il capo ufficio stampa che dice: “Quasi tutti suonano con le basi già pronte, Francesco no”, e aggiunge perfino la parola “playback” riferita a qualche cantante, ma Francesco ride e lo interrompe. “Non è vero, non è vero!”).

 

“E’ così: qualcosa si è aperto verso il mondo fuori, e se proprio mi metti in un angolo dico che quando ho fatto il tour con Lucio Dalla ho capito molte cose. Cose del modo di vivere di Lucio Dalla, della sua musica, e ho capito con quanta leggerezza e con quanta profondità ha fatto il musicista. Vedendomi vicino a lui, lui che alla fine di un concerto si fermava a parlare con tutti, si lasciava fare le foto e io che invece me ne andavo scocciato, ho guardato questa scena da fuori e ho pensato: ma alla fine cosa ottengo io da questa ostinazione ad andarmene, a parte che vado a letto venti minuti prima di Lucio?”.

 

 

Mantengo la promessa che avevo fatto al telefono, non faccio domande su Lucio Dalla, perché parlare di un amico così grande lo fa soffrire, perché non vuole partecipare a celebrazioni e parlare di sé parlando di lui, perché è un dolore privato. Però adesso De Gregori accende un’altra sigaretta e continua, c’è anche Ambrogio Sparagna che lo guarda e annuisce, seduto contro il muro del camerino dove fa molto freddo e dove attende, appeso, il vestito del concerto (e un paio di stivaletti luccicanti). “La gente lo definiva istrionico ma non era vero: Lucio viveva la musica con così tanta compenetrazione che assumeva atteggiamenti spettacolari, ma perché era totalmente dentro la sua parte musicale. E’ come quando vedi un grande jazzista: non fa scena, la scena viene fuori perché sta soffiando dentro il sassofono. E Lucio quando cantava era impressionante. Lui si approcciava al canto in modo mai protocollare, mai diligente, era un eversore: Dalla se ne sbatteva tranquillamente i coglioni del protocollo musicale, del rullante, e mi sconvolgeva perché gli veniva tutto bellissimo lo stesso. Capire questa cosa per un musicista è molto importante”. E’ l’unica volta, adesso, che De Gregori accetta un complimento, non lo ridimensiona, non tenta di convincermi che il suo mestiere non è poi così diverso da quello di un bravo dentista: “Lucio mi diceva sempre che cantavo bene”. Lo dice con malinconia, si rimette gli occhiali scuri. “Ho cominciato a lavorare con lui molto prima di “Banana Republic”, molto prima del 1979: ci frequentavamo, ci incontravamo agli studi di registrazione. Lui era già Lucio Dalla, aveva fatto 4/3/1943 – a Sanremo 1971, dove Francesco De Gregori non è mai andato e dove non andrà mai, a meno che la regia diventi bella come quella di “X Factor” –, stava passando un periodo di leggera flessione commerciale ma non gliene fregava niente, non gli mancava di certo la serenità artistica per fare ciò che gli piaceva. E noi due facemmo amicizia. Mi diceva: domani sera ho un concerto a Viterbo, tu che cazzo fai? Io: niente. Lui: Allora vieni! E facevamo dei pezzi insieme sul palco. Funzionava così, nessuno lo sapeva che sarei arrivato io. Succedeva anche il contrario. Lucio, vado a Bari al Festival del Mediterraneo, tu che cazzo fai? Ah, Bari, bello c’è il mare, vengo, veniva e faceva un pezzo con me. Era bellissimo. A lui piaceva molto questa differenza estetica tra noi, mi diceva: siamo Pippo e Topolino, la gente si diverte, e aveva ragione: durante “Banana Republic” giocava molto su questa storia che io ero alto alto e lui piccolo piccolo. C’era un momento dello spettacolo in cui lui suonava la fisarmonica, poi la metteva a terra e ci saliva sopra per far vedere che si metteva un po’ al mio livello: la gente impazziva per questa stronzata, che era una stronzata però era bella”.

 



 

Le persone si entusiasmano per le cose matte, ma poi si dividono in quelli che amano Alice cantata con Ligabue e quelli che dicono no, De Gregori è diventato troppo alla mano, era meglio quando era snob, quando diceva che da Pippo Baudo mai. De Gregori mi guarda e disapprova, ma in quell’istante suona il telefono ed è Nicola Piovani (che ha arrangiato la nuova versione de La donna cannone) e parlare con qualcuno del suo mondo musicale lo mette al riparo, sul divanetto brullo di una stanza spoglia, dalle domande noiose (la ragazza che mi accompagna, alla fine del concerto, alla fermata della metropolitana “perché per una donna è troppo pericoloso andare in giro da sola”, dice che “De Gregori non è come gli altri, intanto è gentile e saluta, e poi non ha voluto nemmeno una candela profumata, e abbiamo dovuto insistere per mettere almeno una tenda che separasse il salottino dal bagno).

 

“L’atteggiamento talebano però – dice De Gregori alla fine della telefonata – è molto più del pubblico che dell’artista. E’ come se Nanni Moretti domani facesse un cinepattone, io correrei a vederlo e sarebbe un capolavoro, ma il pubblico si arrabbierebbe. Però mettiti nei panni di chi vuole raccontare quello che sente, quello che gli piace nelle canzoni e la gente lo obbliga a raccontare solo le cose che loro vogliono sentire. Io da sempre cerco di fare quello che voglio, ma senza nessuno sforzo, e se mi viene in mente una canzone che a occhio non piacerà alla gente, ma che io devo assolutamente fare, la faccio lo stesso, perché è la mia vita”. Così adesso che sta leggendo “La tempesta” di Roger Vercel, il libro che Primo Levi lesse durante la sua ultima notte a Auschwitz, De Gregori sa che questo romanzo entrerà, in qualche modo, fra mesi o settimane o anni, in una canzone, ma non sarà sfoggio culturale, non sarà un’operazione intellettuale. Lui non vuole essere chiamato cantautore, preferisce cantante, e ha anche molta paura che qualcuno lo definisca un intellettuale. “Perché è una parola ambigua: può avere una valenza negativa se si intende chi semplicemente coltiva le belle lettere, il pensiero, parla dall’alto, esprime pareri, se ne tira fuori sempre con le mani intatte, l’intellettuale che analizza e non produce. Non voglio essere quel tipo lì, che critica e non combina niente. Però c’è anche un altro tipo di intellettuale che si sporca un po’ le mani, che sta dentro la realtà, penso a Pietrangelo Buttafuoco, o a Pier Paolo Pasolini, uno che assume su di sé i rischi della vita intellettuale. Io poi non sono rigoroso, non sono uno studioso, non sono Battiato, ecco”. De Gregori assicura che Battiato è simpaticissimo, allegro, spiritoso, pieno di ironia oltre che immensamente colto, e racconta di quella volta, durante il tour con Lucio Dalla, in cui andarono insieme a casa di Lucio, in Sicilia: “Parlavamo di politica e Battiato cominciò a difendere il mondo dell’islam e ad attaccare Berlusconi perché trattava male le donne, le pagava, e io dissi vabbè cazzo, però voi le lapidate, non le fate uscire, non possono guidare l’automobile, allora meglio Berlusconi, e lui si infuriò, mi disse che ero berlusconiano”. De Gregori lo racconta ridendo, con affetto per Battiato, e con un sempre maggiore disinteresse per le cose della politica. “Per quanto mi riguarda la politica ha fallito, posso solo dire che la subisco”. Anche in questo De Gregori è cambiato, da quando improvvisava concerti con Antonello Venditti per Walter Veltroni, da quando riempiva l’automobile di giornali, si impegnava per Alleanza democratica, discuteva con tutti. “Oggi ho visto i titoli su Lupi, non ho idea di che cosa sia successo, so già tutto prima di leggere, non so nemmeno se questa cosa appartenga alla politica però il mio interesse per tutto questo è precipitato e sta continuando a precipitare, come se nella vita avessi cose che mi toccano molto più da vicino: l’arte, i film, gli amici, la mia famiglia, mia moglie che quando non c’è mi annoio. Da due o tre anni mi arriva il fastidio, non voglio nemmeno dire che cosa provo quando scanalando sul televisore mi imbatto in qualche talk-show politico: mi crea un’ansia, un fastidio enorme, una noia mortale”. (Al posto dei talk-show, “True detective” e “Fargo”).

 



 

Manca poco all’inizio del concerto, ceniamo insieme ai musicisti e agli attrezzisti, De Gregori non mangia ma fuma (“Quello non mangia mai”, dice Chips scuotendo la testa. Chips che lavora con lui da trentacinque anni, non dice niente e sa tutto e durante i concerti teneva in braccio i suoi figli, gemelli, che adesso sono alti due metri e non hanno smesso di battere le mani al padre) e spiega che questo è il momento perfetto: “E’ in questi posti gelidi, con la scaletta da cambiare, le persone che provano gli strumenti, che si sente che c’è una creazione, non nelle interviste”. E’ la vita vera di una canzone, di un concerto, De Gregori la chiama “la parte viva”, è come quando suo padre lo portava in giro per le biblioteche dell’Abruzzo e del Molise, che dirigeva, a controllare gli scaffali, a scartabellare fra i libri, controllare in che stato fossero, come erano messi. “Non lo ricordo assorto nella lettura in poltrona, non ne aveva il tempo, ma sapeva esattamente dove si trovavano i libri, sapeva come erano fatti. E quando molti anni fa ha perso la vista ho cominciato a cercare per lui le audiocassette con i libri raccontati. Era così felice quando ne trovavo qualcuna. Anche per lui ho deciso di registrare Cuore di tenebra e poi America, che tutti dicevano essere un romanzo minore di Kafka, e invece io l’ho amato moltissimo, ho amato quell’idea di onestà personale che guida il ragazzino di Praga, costretto a emigrare in America”. Ecco, l’America. Francesco De Gregori dice che Bob Dylan, il musicista che l’ha maggiormente influenzato e di cui aprirà il concerto a Lucca il primo luglio prossimo, “testimonia la cultura del suo paese”. E tu Francesco, tu che adesso prendi in mano la chitarra, saluti gli amici, sorridi ai tuoi figli e accendi un’altra sigaretta prima di salire sul palco e cantare Sotto le stelle del Messico “senza mai fare la stessa canzone”, come dice Sparagna commosso, tu che cosa sei? “Io sono profondamente italiano”.

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  • Annalena Benini
  • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.