I migranti soccorsi dalla nave Diciotti della Guardia Costiera italiana sbarcano a Pozzallo (foto LaPresse)

I prefetti del mare

Carmelo Caruso

Un Corpo nobile, votato a salvare vite e a governare i porti. Cosa resta della Guardia costiera ai tempi di Salvini, “Capitano”, mai ammiraglio

Cavour non voleva chiudere i porti ma spalancarli. E non è da oggi che la Guardia costiera ha come missione il soccorso in mare aperto

E’l’unico “corpo” che sa rimanere in equilibrio sia sulla terra, quando infuria la tempesta, sia sul mare, che è oggi l’ultima terra di conquista. E infatti la Guardia costiera obbedisce allo stato, ma non si fa domare da Matteo Salvini, che è “capitano”, ma solo al Papeete Beach, e mai ammiraglio, qualifica che viene dall’arabo amir al bahr e che significa comandante del mare. Preunitaria, ma con un altro nome, Corpo delle Capitanerie di Porto, la Guardia costiera è stata istituita per decreto nel 1989, ma opera dal 1865 ed è quindi saggia ma giovane. Navigata, ma se occorre temeraria. “E sicuramente efficace e silenziosa, capace ancora di sciogliere qualsiasi tipo di conflitto”, dice Massimiliano Piras che insegna diritto della Navigazione all’Università di Cagliari e che conosce anche la rotta giuridica, il codice del mare che solo in Italia è anche quello del cielo. “Sia il diritto Marittimo che quello Aeronautico si rifanno a un codice comune di navigazione. E’ una specialità tutta italiana. Almeno in acqua e sulle nuvole, l’Italia è riuscita a semplificare”. Secondo Piras, per raccontare la nascita e l’evoluzione della Guardia costiera è necessario tenere a mente alcune date e dire subito che i suoi uomini, inizialmente, non erano militari ma funzionari civili. “Prima del 1865, due strutture si dividevano i compiti che successivamente passeranno al Corpo delle Capitanerie di Porto. Una era il Corpo dello stato maggiore dei Porti (la parte militare), l’altra era rappresentata dai consoli di Marina (la parte civile). Il 1877 è l’anno del Codice marittimo, mentre il 1869 è quello in cui vengono emanati i regolamenti. E’ il primo tentativo di legge organica”. Si tratta di un delicatissimo sistema di suddivisione dei compiti sperimentato nel regno di Sardegna, che è l’embrione del modello unitario, dove tutti i servizi della Marina, sia militare sia mercantile, erano sotto la giurisdizione del ministero della Guerra e della Marina. Non si litigava ancora per esprimere il commissario europeo, come avviene in questi mesi, ma Cavour, nel 1850, già ministro designato dell’Agricoltura e del Commercio, pretese non da Giuseppe Conte, ma dal suo presidente, Massimo d’Azeglio, il controllo dei porti e delle acque. La sua idea era che solo dal mare potesse arrivare tutta la fortuna per il suo regno e che solo attraverso il controllo della Marina fosse possibile eliminare la “mentalità conservatrice e promuovere lo sviluppo ideologico”.

 

L’ultimo anno ha visto il Corpo sempre più protagonista in operazioni di salvataggio, talvolta in contrasto col ministero dell’Interno

Insomma, non voleva chiudere i porti ma spalancarli. E non è certo da adesso che la Guardia costiera ha come missione e identità il controllo delle coste e il soccorso in mare aperto. Già il codice della Marina mercantile del 1877, all’articolo 122, affidava ai comandanti di porto la funzione di soccorso. “E però – precisa Piras – dobbiamo fare attenzione. Dalla sua nascita, il compito delle capitanerie era amministrare il mare in tutti i suoi aspetti. Diciamo che gli uomini impiegati in questi uffici si ritenevano di veri amministratori della navigazione marittima e dei porti. Allargando l’orizzonte, e cercando una similitudine, possiamo definirli i prefetti del mare”. C’è, già all’origine, l’arte del comando, ma anche quella del compromesso, l’uso contenuto della forza e la predilezione per la parola piuttosto che per le armi. Militarizzata soltanto nel 1919, la Guardia costiera/Corpo delle Capitanerie di Porto, si è dunque trovata quest’anno, che è l’anno dei cosiddetti “porti chiusi”, a celebrare due compleanni: uno da cento e uno da trenta che l’hanno vista progressivamente sempre più protagonista in operazioni di salvataggio e in alcune occasioni in contrasto con il ministro dell’Interno. L’ultimo scontro si è verificato nelle scorse settimane quando Salvini voleva impedire alla Gregoretti, nave della Guardia costiera, di accedere con centotrentacinque migranti al porto di Augusta. Alla fine, Salvini ha ceduto e il suo insuccesso ha provato a spacciarlo per successo: “Grazie a noi, l’Europa si farà carico dei migranti”. Il ministro evidentemente non conosce gli eroi di questo Corpo che non è sotto il controllo del suo dicastero. Più volte, il vicepremier sconfina, ma non riesce a entrare nelle acque della Guardia costiera che appartengono al ministero della Difesa (la Guardia Costiera è un corpo specialistico della Marina), ma ancora di più a quello delle Infrastrutture e dei Trasporti da cui dipende. 

 

Nella memoria, nell’armadio sentimentale della Guardia costiera, c’è il salvataggio come battesimo di fuoco, operazione spericolata che nel 1867 valse a Gaetano Magliano, comandante della Capitaneria di porto di Livorno, la medaglia d’oro conferita motu proprio dal re Vittorio Emanuele II, che in quella circostanza si trovava a San Rossore. Non si trattava di una nave carica di nordafricani, ma di due equipaggi greci naufragati in bocca d’Arno e salvati da Magliano. Erano due velieri. Forse navi ong? Ironia a parte, quando si parla del Corpo delle Capitanerie di Porto si fa riferimento a un Corpo che si è confrontato con l’emergenza e che dall’emergenza ne è uscito mutato. La Prima Guerra mondiale è, come detto, il momento che ne provoca la militarizzazione. Nel 1919 si trasforma in un Corpo militare e l’abbigliamento diventa quello della Marina. Vengono così introdotte le spalline con le stelle a cinque punte, rigorosamente poste sia sul berretto sia sulle maniche, su un panno grigio-verde. Nel 1938 si aggiunge anche il giro di bitta, il nodo che distingue i gradi degli ufficiali. Bianca d’estate e blu d’inverno, l’uniforme della Guardia costiera è già avventura e i bottoni sono quelli dell’eroe gentiluomo di Hugo Pratt, Corto Maltese, che con i doganieri e i capitani di porto ha sempre avuto modo di mescolarsi e stringere la mano perché, un po’ come lui, anche loro appartengono a “una dinastia completamente estinta che credeva nella generosità”. Tra i ‘colleghi’ internazionali che la Guardia costiera può vantare, ci sono gli scrittori Herman Melville e Nathaniel Hawthorne. Entrambi, come racconta Luciano Vandelli, “Tra carte e scartoffie. Apologia letteraria del pubblico impiegato” (Il Mulino), lavoravano negli uffici che in Italia sarebbero stati della Capitaneria di Porto e tutti e due cercavano un posto tranquillo, in mezzo “a vecchi capitani che, dopo essere stati sballottati su tutti i mari e aver affrontato le burrasche della vita, si erano alla fine arenati in quella quieta insenatura”. Ma davvero si può ritenere un posto tranquillo? Fra il 1867 e il 1915, mentre un pezzo d’Italia emigrava nel nuovo mondo, alle Capitanerie era stato assegnato il compito di gestire e controllare i viaggi oceanici favoriti da una legge, la numero 5.866, che sanciva il principio di libertà di emigrare e obbligava i vettori a rispettare gli spazi minimi per i passeggeri. Per documentare le condizioni dei piroscafi, dei connazionali, per esaminare l’organizzazione delle Capitanerie, il 10 marzo del 1884, lo scrittore Edmondo De Amicis si imbarcò sulla nave Nord America perché l’opinione pubblica chiedeva di sapere allora – lo scrive l’ammiraglio Stefano Vignani nella sua “Storia del Corpo delle Capitanerie di Corpo. Guardia Costiera” – se “l’emigrazione equivalesse a una tratta di schiavi e se i vettori si comportassero da negrieri”.

 

Sono uomini che possiedono un forte spirito di Corpo e che si immedesimano sempre con il tutto e mai con la parte

Secondo Piras, anche l’italiano più reazionario, quello che è solito lamentare la lentezza della burocrazia, delle procedure, si è ricreduto quando ha avuto modo di interagire con questi agenti, che il professore ritiene una preziosa élite nazionale, una sorta di Ena del mare che negli ultimi decenni ha anche acquisito competenze maturate in paesi stranieri (se lo sapesse Salvini!). “Il loro percorso inizia in accademia, ma si perfeziona con studi di giurisprudenza e oggi, mi accorgo, sempre più con studi legati alla comunicazione”. E però, parlano poco. Non crede? “E qui torno a pensare che sono simili ai prefetti che possiedono un forte spirito di corpo e che si immedesimano sempre con il tutto e mai con la parte. Lo fanno sempre senza abusare del loro potere, che nei porti ricordo essere notevole. Parlare poco, molte volte è già una medaglia”, pensa Piras che, senza saperlo, condivide l’opinione che fu di Georges Simenon. Nel suo “Il Mediterraneo in barca”, appena pubblicato da Adelphi e che riunisce le corrispondenze corsare sulla barca che lo scrittore abitò per due anni come una casa, Simenon descrive il comandante di porto (e si riferisce in particolar modo a quello italiano) e la sua sovranità: “Un sindaco nel suo comune, un questore a Parigi, un re africano nella savana, un dittatore in qualsiasi posto nel mondo ha meno potere di un comandante di porto”. Il loro potere si è nel tempo eroso, è vero. Sono state istituite autorità portuali e il controllo dei traffici è invece specificità della Guardia di Finanza, ma è merito di questi uomini e della loro capacità di intermediazione se i nostri moli non sono mai stati polveriere. Per contenere le rivendicazioni salariali dei portuali, la Democrazia cristiana lasciò mani libere ai capitani di Porto e puntò tutto sulla loro abilità diplomatica. “In uno scenario composito come quello del porto, dove numerosi sono gli attori in campo – penso agli armatori, ai portuali – la Guardia costiera è riuscita a disinnescare liti, ad armonizzare coscienze”, dice ancora Piras. 

 

I militari della Guardia costiera hanno mantenuto fedeltà al loro motto, Omnia vincit animus, senza ricorrere alla disobbedienza civile

E tuttavia senza mai naufragare. Nel momento del disordine, subito dopo la proclamazione dell’armistizio, furono numerosi i capitani che passarono alla clandestinità pur di non aderire alla Repubblica di Salò. Anche durante gli anni più euforici del regime, quelli coloniali, si limitarono a fare quello che sapevano fare meglio: allestire dei porti modello in Etiopia, amministrarli partecipando il meno possibile all’impazzimento nazionale. La Guardia costiera ha anche il suo simbolo di Resistenza ed è il comandante Dante Novaro che accettò la deportazione a Dachau pur di non rivelare segreti operativi. E c’è anche l’autoaffondamento, lo sberleffo ai tedeschi, del comandante Enrico Roni che, a Savona, ordinò ai suoi uomini di lasciare colare a picco le navi mercantili pur di non consegnarle ai nazisti. “Si misurano con l’elemento più complesso e misterioso: il mare. E’ una buona ragione per fidarsi e affidarsi a loro”. Ne è convinto Giuseppe Conte, non l’avvocato del popolo ma il poeta del mare, l’ultimo italiano che sa cantarlo e che, per dirla con i versi di Paolo Conte (un altro che se ne intende), sa farne elegia. Conte rivela che avrebbe anche lui voluto fare parte di questa compagnia di cui non è solo amico, ma anche giurato unico. “In passato, mi hanno invitato a presiedere la giuria di un concorso interno di poesie. Mi ha lusingato”. E dunque, il poeta graduato dalla letteratura riconosce in loro non solo la saggezza e l’equidistanza, ma anche una sapienza poetica, “e me lo spiego ancora con l’elemento. L’acqua è già un miracolo poetico. I loro componimenti sono pregevoli”.

 

Conte ha frequentato, “per simpatia e amicizia”, molti di questi uomini e li ha osservati a lungo. “A volte li ho trovati ruvidi, dove per ruvidità si intende un modo di stare al mondo concreto e brillante. Di certo sono curiosi e mai fuori posto”. Non lo sono neppure in queste settimane. Malgrado le sue manovre, gli agenti della Guardia costiera sono riusciti a non cadere nella rete di Salvini che, con il pretesto dei migranti a bordo, ha provato a cacciarli da casa loro, il porto appunto. Ricordate i prefetti che in questi anni sono stati il bene rifugio della democrazia, gli unici davvero che si sono caricati sulle loro spalle l’emergenza migranti e tenuto a bada gli impresari della crudeltà? Ebbene, come loro, ma sul mare, i militari della Guardia costiera hanno finora mantenuto fedeltà al loro motto, Omnia vincit animus, il coraggio vince su tutto, e senza ricorrere alla disobbedienza civile. Non è l’arte italiana del galleggiare, ma quella più sofisticata del marinaio che riesce a masticare le offese del tempo e infine battere la nausea che significa mal di mare. Protetti da una specialissima santa, e per di più orientale, santa Barbara, questi agenti sono gli unici che riescono a navigare in un mare che si tenta di recintare, a trovare la porta stretta per accedere. Proprio come la loro santa che, rinchiusa in una torre, fu ugualmente capace di oltrepassare i muri.

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