Il ministro dell'Interno in spiaggia a Milano Marittima (foto LaPresse)

La Gregoretti e i peccati di Matteo Salvini

Adriano Sofri

Quando un tribunale sarà libero di occuparsene, il vicepremier dovrà rendere conto del disprezzo per l’umanità resa ostaggio e umiliata

Al sesto giorno di sequestro dei naufraghi e dell’equipaggio della nave Gregoretti, della Guardia costiera italiana, Salvini ha annunciato via Facebook che sbarcheranno, accolti da paesi e vescovi diversi, e che lui ha “voluto risvegliare le coscienze”. Al sesto giorno era finalmente pervenuto in qualche sottotitolo di giornale il dettaglio che sulla nave c’è “solo un bagno per 116 persone”. Non so quanti nel pubblico italiano si siano interrogati su come si trascorressero giorni e notti sulla nave. Né quanti si siano interrogati su come si desse sfogo ai propri bisogni corporali. E’ un argomento che ciascun essere umano tratta, fra sé e sé, come cruciale, anche solo al momento di progettare la propria vacanza ai tropici o la propria visita a Sarajevo o Idlib assediata, e che resta piuttosto rimosso in pubblico, non più tanto per pudore, credo, il pudore è moribondo, quanto per un timore di inadeguatezza, di ridicolo, di lesione dell’idea di vigore fisico per la quale tanto si spende.

 

L’Italia poi ha una specie di ritardo civile nei confronti del resto d’Europa che si misura nella scarsità e mediocrità dei suoi gabinetti pubblici: una specie di vergogna del recente passato contadino, misto di naturalezza e povertà d’igiene. Chi non abbia dedicato un’attenzione peculiare e schietta al punto non sa che cosa voglia dire vagone piombato, lager, galera, assedio. Non sa che cosa voglia dire tortura. La tortura ha il suo nucleo più profondo nella frustrazione sessuale e nell’umiliazione corporale. L’olio di ricino era la quintessenza italiana del fascismo. “Un bagno per 116 persone” è quasi un lusso per un secchio, ammesso che ci fosse, in un carro bestiame di 50 o 60 persone. Il mare attorno al bastimento sul cui ponte stanno ammassate all’addiaccio 116 persone è una benedizione rispetto alla fossa nella quale, a orario e tempo fisso, bisognava fare i propri bisogni nel campo, badando a non annegarci dentro e a scavalcare i cadaveri che vi venivano buttati assieme agli escrementi. La notte sulla Gregoretti è una fortuna che aiuta a nascondersi un poco dalla vista degli altri, uomini e donne: perfino nei vagoni piombati, la notte attenuava un poco la vergogna, benché anche i giorni fossero bui se non per le righe di luce che filtrava dalle fessure. Ieri, quando la viltà ha indotto a comunicare via Facebook che lo sbarco era maturato, la visita ispettiva ordinata dai magistrati aveva certificato: “Ci sono un caso di tubercolosi e un altro di cellulite infettiva; 20 di scabbia e qualche altro caso con diverse patologie. In totale sono 29 i migranti con problemi di natura sanitaria. Oltre ai due casi di estrema gravità, anche gli altri devono ricevere cure”. E questo quando già altri casi, più gravi, erano scesi, anch’essi in ritardo. Riferii, ormai molti anni fa, i racconti che avevo ascoltato da molti vecchi ceceni che avevano subito la deportazione staliniana in Kazakistan o in Siberia. Non sono cose che si possano dire, rispondevano. Abbassavano la testa e sussurravano che molte persone si lasciavano morire sui treni per la vergogna. Salvini ha voluto risvegliare le coscienze. In un altro mare, aveva appena commesso “un errore da papà”: non sarà di quello che dovrà rendere conto, quando un tribunale sarà libero di occuparsene. Dei poliziotti costretti a impedire a un cittadino di usare la sua camera su una libera spiaggia sì, dei militari costretti a impedire ai loro salvati di scendere a terra sì, del disprezzo per l’umanità resa ostaggio e umiliata sì.

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