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Contro gli abusi sugli abusi

Ermes Antonucci

L’indagine a Reggio Emilia sulla presunta sottrazione di minori sulla base di finti abusi è un’occasione per vaccinare l’Italia da chi trasforma i processi in caccia alle streghe

Un sano approccio garantista e il ricordo dei tanti processi mediatici poi finiti nel nulla dovrebbero indurre a esaminare con molta prudenza il caso di Reggio Emilia sulla presunta sottrazione di minori dalle proprie famiglie sulla base di finti abusi.

 

Angela Lucanto, Bassa modenese, Rignano Flaminio, Reggio Emilia. C’è un filo che collega alcuni casi di abusi che non lo erano

L’inchiesta “Angeli e Demoni”, coordinata dalla pm Valentina Salvi, ha portato all’adozione di misure cautelari per 18 persone e all’iscrizione nel registro degli indagati di altre 27 (tra amministratori pubblici, assistenti sociali, psicoterapeuti e operatori socio-sanitari), accusate di aver lucrato sulla gestione degli affidi di bambini in Val d’Enza. Secondo quanto sostenuto dalla procura, i bambini venivano allontanati dalle proprie famiglie, sulla base di segnali di insofferenza che potessero lontanamente far pensare ad abusi, e trasferiti in una struttura pubblica (denominata “La Cura”, a Bibbiano) dove assistenti sociali e psicoterapeuti raccoglievano le ricostruzioni dei minori su quanto avvenuto cercando di condizionare la loro memoria con domande suggestive (in modo da creare finti ricordi) e persino falsificando le carte, in modo tale che emergessero abusi da parte dei familiari. Poi gli stessi operatori chiedevano al tribunale per i minori il decadimento della patria potestà e il collocamento dei bambini in affido retribuito ad amici e conoscenti (che ottenevano i contributi economici previsti per le famiglie affidatarie), per poi sottoporli anche a un percorso psicoterapeutico che faceva girare centinaia di migliaia di euro. Questo è l’impianto accusatorio rappresentato dalla procura.

 

Dopo il tradizionale clamore mediatico iniziale, alcuni aspetti dell’indagine sono stati ridimensionati. E’ stato precisato che non è stato fatto alcun uso di elettroshock sui bambini, come era stato inizialmente raccontato, e che inoltre il sindaco di Bibbiano del Pd – pesantemente attaccato dai partiti di opposizione, anche a livello nazionale – non ha niente a che fare con gli abusi ma è indagato per falso in atto pubblico. La cosa migliore da fare, dunque, è attendere la valutazione della magistratura e che la giustizia faccia il suo corso.

 

Lasciando da parte il caso di Reggio Emilia, però, occorre prendere atto di due importanti criticità che riguardano il mondo che ruota attorno al trattamento degli abusi sessuali su minori.

 

Sulla valutazione del quadro psicologico del minore vittima di presunto abuso non vi è unanimità di pensiero sulle tecniche da utilizzare

Da un lato, emerge la scarsa trasparenza di un settore che, tra assistenti sociali, gestori di case famiglia, cooperative, psicologi, famiglie affidatarie e periti dei tribunali dei minori, muove ogni anno centinaia di milioni di euro, con il rischio elevato che tra questi soggetti si vengano a instaurare rapporti di commistione (nel 2015 la onlus Finalmente Liberi calcolò che circa il 20 per cento dei giudici onorari minorili opera in conflitto d’interessi, essendo allo stesso tempo giudice e professionista con rapporti lavorativi proprio con le strutture che accolgono i minori allontanati dalle famiglie). Dall’altro lato, occorre prendere atto che su una materia così delicata, come quella della valutazione del quadro psicologico del minore vittima di presunto abuso sessuale, non vi è unanimità di pensiero tra gli operatori sulle metodologie da utilizzare.

La stragrande maggioranza della comunità scientifica (psicologi, psichiatri, neuropsichiatri infantili e criminologi) si rifà alla Carta di Noto, stilata nel 1996 e aggiornata nel 2002, che costituisce ormai un riferimento costante per la giurisprudenza e la dottrina. La Carta di Noto raccoglie le “linee guida per l’esame del minore in caso di abuso sessuale”, con l’obiettivo di “garantire l’attendibilità dei risultati degli accertamenti tecnici e la genuinità delle dichiarazioni, assicurando nel contempo al minore la protezione psicologica”. Il testo prevede un protocollo di intervento basato su alcuni principi molto rigorosi. Ne citiamo alcuni. La valutazione psicologica non può avere ad oggetto l’accertamento dei fatti per cui si procede, che spetta esclusivamente all’autorità giudiziaria. In caso di abuso intrafamiliare gli accertamenti devono essere estesi ai membri della famiglia, compresa la persona cui è attribuito il fatto, e ove necessario, al contesto sociale del minore. E' metodologicamente scorretto esprimere un parere senza avere esaminato il minore e gli adulti cui si fa riferimento. Si deve ricorrere in ogni caso possibile alla videoregistrazione, o quanto meno all’audioregistrazione, delle attività di acquisizione delle dichiarazioni e dei comportamenti del minore. Tale materiale, per essere utilizzato ai fini del giudizio, va messo a disposizione delle parti e del magistrato.

 

Sulla valutazione del quadro psicologico del minore vittima di presunto abuso non vi è unanimità di pensiero sulle tecniche da utilizzare

Qualora il minore sia stato sottoposto a test psicologici i protocolli e gli esiti della somministrazione devono essere prodotti integralmente e in originale. Nel colloquio con il minore occorre consentirgli di esprimere opinioni, esigenze e preoccupazioni, evitando domande e comportamenti che possano compromettere la spontaneità, la sincerità e la genuinità delle risposte. I sintomi di disagio che il minore manifesta non possono essere considerati di per sé come indicatori specifici di abuso sessuale, potendo derivare da conflittualità familiare o da altre cause, mentre la loro assenza non esclude di per sé l’abuso. Quando sia formulato un quesito o prospettata una questione relativa alla compatibilità tra quadro psicologico del minore e ipotesi di reato di violenza sessuale è necessario che l’esperto rappresenti, a chi gli conferisce l’incarico, che le attuali conoscenze in materia non consentono di individuare dei nessi di compatibilità o incompatibilità tra sintomi di disagio e supposti eventi traumatici. L’esperto, anche, se non richiesto, non deve esprimere sul punto della compatibilità né pareri né formulare alcuna conclusione.

 

C’è però un altro movimento di pensiero, di dimensioni decisamente più ridotte, che rifiuta le linee guida stabilite dalla Carta di Noto. E’ quello che fa riferimento al Coordinamento italiano dei servizi contro il maltrattamento e l’abuso all’infanzia (Cismai). Il Cismai, nato nel 1993, è un’associazione privata a cui aderiscono centri e servizi che operano nel campo della prevenzione e del trattamento degli abusi su minori (anche pubblici, come Comuni e Asl) e professionisti come assistenti sociali, psicologi, neuropsichiatri ed educatori. Gli associati sono tenuti ad applicare la “Dichiarazione di consenso in tema di abuso sessuale”, che “fornisce linee guida per gli interventi degli operatori psico-socio-sanitari in relazione ai casi di abuso sessuale ai minori”. La Dichiarazione di consenso, aggiornata nel 2015, non è stata elaborata sulla base degli orientamenti condivisi dalla comunità scientifica, bensì da una commissione interna all’organizzazione stessa.

 

Basta leggere alcuni dei punti stabiliti dalla Dichiarazione di consenso del Cismai per capire come si sia di fronte a un approccio completamente diverso da quello della Carta di Noto. Nel documento si prescrive, sì, di evitare domande suggestive ai minori, ma si legge anche che l’abuso sessuale “è un fenomeno diffuso”, che tali esperienze “possono non comportare violenza esplicita o lesioni”, ma“possono avvenire senza contatto fisico e/o essere vissute come osservatori”. E ancora: “Trattandosi di esperienze frequenti ma che rimangono nella maggioranza nascoste e segrete, vanno sviluppate attenzione e competenze orientate al riconoscimento”; “all’abuso sessuale può conseguire una vasta gamma di sintomi cognitivi, emotivi, comportamentali e somatici aspecifici, che possono indurre la richiesta di una valutazione psicodiagnostica anche in assenza di rivelazioni”; “le conoscenze sessuali improprie e i comportamenti sessualizzati sono riconosciuti come indicatori con maggior grado di specificità, ed esigono approfondimento”; “la rivelazione è la conseguenza della presa di contatto consapevole con la propria esperienza traumatica”; “quanto più il bambino è stato danneggiato dall'abuso, tanto più può essere compromessa la sua capacità di ricordare e raccontare”; “la rivelazione va sempre raccolta e approfondita, anche se si presenta frammentaria, confusa, bizzarra”; “poiché quasi sempre il presunto perpetratore nega e mancano evidenze fisiche e testimonianze esterne, la valutazione è centrata in modo principale o esclusivo sul minore”; “non si hanno dati certi sulla quantità di falsi positivi, ma è comprovato che l’abuso sessuale è un fenomeno frequente e in grande prevalenza sommerso”; “in considerazione dell’alta frequenza dell’abuso sessuale, va posta ogni cura nell’evitare pregiudizi sulla probabilità di falso positivo e gli atteggiamenti conseguenti”.

 

Dalla lettura di questi punti (dai quali spicca anche l’assenza dell’obbligo di registrare le sedute con i minori), si comprende perché i sostenitori del Cismai abbiano sempre rigettato la Carta di Noto, definendola in passato, indirettamente, addirittura un protocollo in difesa dei pedofili. D’altronde nel 2013 era la stessa Cismai che, commentando i dati di una ricerca secondo cui solo una piccolissima parte dei procedimenti su presunti abusi sessuali a danni di minori si conclude con una condanna degli imputati, parlava di “sentenze sbilanciate a favore di chi abusa”, aggiungendo che “i pregiudizi e le maggiori risorse di cui godono gli adulti condizionano giustizia, forze dell’ordine, avvocati, e conducono, nella maggior parte dei casi, all’impunità”. In una lettera inviata la scorsa settimana a questo giornale, Gloria Soavi, Presidente Cismai, ha rivendicato la distanza del Cismai dalla carta di Noto ma ha specificato che “le nostre linee guida, non solo sull’abuso, si basano su documenti scientifici e seguono le norme delle Convenzioni internazionali per i diritti dei bambini e validate dall’Ispcan, di cui siamo partner italiani dal 2005, che è la più grande organizzazione internazionale che si occupa di maltrattamento e abuso”. Senza dunque voler fare dietrologie, ma mettendo semplicemente in fila i fatti, occorre ragionare sul significato che può avere il fatto che al Cismai fossero affiliati gli assistenti sociali al centro della celebre vicenda di Angela Lucanto (che ha ispirato anche una recente fiction televisiva con Sabrina Ferilli), una bambina di 7 anni che, nel 1995, venne allontanata dalla propria famiglia sulla base di pesanti accuse di molestie sessuali nei confronti del padre: al termine di un lungo calvario, il padre venne assolto e Angela tornò dalla sua famiglia dopo ben undici anni. E allo stesso modo, ma solo per fare qualche esempio, occorre prendere atto che al Cismai fossero affiliati molti degli psicologi e assistenti sociali protagonisti dell’inchiesta sulla presunta setta responsabile di abusi sessuali e riti satanici nella Bassa modenese tra il 1997 e il 1998: intere famiglie vennero distrutte prima che gran parte degli imputati venisse assolta e i giudici smontassero le indagini portate avanti da inquirenti, psicologi e assistenti sociali, orientate a costruire nei minori un “falso ricordo collettivo”.

 

Lo scontro è tra chi utilizza e chi no la Carta di Noto. La storia del Cismai. La differenza tra raccogliere indizi e dimostrare le tesi

E, ancora, occorre prendere atto che al Cismai fossero affiliati molti dei professionisti ai quali la procura di Tivoli affidò le perizie dell’indagine sui presunti abusi a Rignano Flaminio nel 2007, quando cinque persone vennero arrestate, accusate di abusi sessuali su minori e rappresentati sui giornali come “pedofili” e “orchi” prima di essere scagionate e assolte. Tra questi professionisti vi era lo psicoterapeuta Claudio Foti, oggi indagato in qualità di direttore scientifico della onlus Hansel e Gretel, al centro dell’inchiesta di Reggio Emilia. Nei giorni scorsi, in un’intervista al Fatto quotidiano (e in una lettera al Foglio) la presidente del Cismai, Gloria Savi, ha dichiarare “che da diversi anni il Cismai non ha tra i suoi soci il centro Hansel e Gretel”. La onlus di Foti è stata in realtà associata al Cismai nel 2015, quando la Dichiarazione di consenso, che indica le metodologie da utilizzare nell’ascoltare i minori, venne aggiornata e condivisa da tutti i soci del Cismai. Cercando, infatti, la pagina del sito del Cismai contenente l’elenco dei soci sul motore di ricerca Internet Archive (www.web.archive.org), che dal 1996 “fotografa” a cadenza regolare tutti i siti web del mondo, si scopre che in una “fotografia” del sito Cismai scattata il 17 novembre 2015, il nome del “Centro studi Hansel e Gretel Onlus” viene indicato nell’elenco delle oltre 250 associazioni aderenti al Cismai. La onlus, inoltre, viene indicata nell’elenco dei soci anche nel 2016 e nel 2017. In quegli anni, quindi la onlus Hansel e Gretel ha condiviso e applicato le metodologie indicate nella Dichiarazione di consenso del Cismai. D’altronde, il Cismai risulta anche tra i soggetti che hanno collaborato all’organizzazione di un convegno tenutosi il 10 e 11 ottobre 2018 a Bibbiano dedicato ai primi due anni di esperienza del centro “La Cura”, ora al centro dell’indagine di Reggio Emilia, in cui operavano gli operatori della onlus Hansel e Gretel. Al convegno intervenne con una relazione anche Gloria Soavi, presidente del Cismai.

 

Tutte queste coincidenze ovviamente non dimostrano nulla – né pretendono di dimostrare nulla – sul piano giudiziario, ma dovrebbero probabilmente costituire un motivo di riflessione generale, anche a livello ministeriale, sulla necessità di definire, una volta per tutte, un unico protocollo di intervento per gli operatori chiamati a valutare i casi di abusi su minori, fondato su criteri e metodologie condivise dalla comunità scientifica. “In sostanza – sostiene l’avvocato Cataldo Intrieri, che ha partecipato agli ultimi due aggiornamenti della Carta di Noto e come difensore ha spesso contestato le perizie degli esperti del Cismai – occorre arrivare anche nel settore delle perizie psicologiche ai criteri che regolano la valutazione giudiziaria del corretto operato dei medici: perizie e ctu collegiali, non affidate a un singolo psicologo, e rispetto dei protocolli condivisi dalla comunità scientifica, vale a dire Carta di Noto e Consensus di Roma del 2010. Non si tratta di applicare precetti rigidi, ma di condividere una comune cultura ispirata a razionalità scientifica, come impone la migliore giurisprudenza della Cassazione, in tema di prova scientifica. Se la disputa dovesse spostarsi nelle aule giudiziarie, sarà un’eccellente occasione per puntare il faro sia sulla scienza propugnata dalle varie realtà del Coordinamento che sulla ormai imponente casistica giudiziaria dei loro interventi negli uffici giudiziari di tutta Italia e per capire se esiste o no in Italia una qualche organizzazione che invece di raccogliere indizi per arrivare a una conclusione cerchi prima di tutto conferme a proprie intime convinzioni”.